Pascoli spiegato dai ragazzi

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Qualche settimana fa è stato reso noto l’esito di una ricerca sul “canone dei ragazzi europei”. Si è notato che gli italiani hanno nominato solo autori scolastici, come se non ne conoscessero altri: scarsa dimestichezza con la lettura, si potrebbe pensare. La mia ricerca invece non ha valore scientifico, però offro umilmente il suo risultato, come un regalo di anniversario (morì il 6 aprile del 1912), a Giovanni Pascoli – poeta immenso e professore timido che tanto tempo ha speso nelle aule del nostro paese. Da anni, nelle scuole e nelle università , da ospite, dialogo di libri coi ragazzi. Di solito le domande le fanno a me, ma una la faccio anch’io. Qual è la loro poesia preferita? Le risposte variano (sì, fra quelle lette in classe): Ungaretti, Pasolini, Paolo e Francesca. 
E però spesso è risuonato quel titolo – che credevo perduto nella mia infanzia e nell’infanzia della nazione: La cavalla storna. La critica predilige un altro Pascoli – quello fonosimbolico, linguisticamente sperimentale o latino. A Benedetto Croce La cavalla storna dava addirittura il tormento: quella tragedia domestica cantata col metro di un’antica romanza gli sembrava una grande poesia mancata, sospesa fra il capolavoro e il pasticcio. Eppure La cavalla storna resiste. Ti resta impressa, mi ha spiegato un allievo geometra, è come una canzone-tormentone, col ritornello: «O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna…». Una liceale: per il cavallo – mi fa piangere perché non può parlare. Un terzo: per l’omicidio, mi piacciono i cold case. E così Pascoli, con la sua poesia più parodiata, croce degli studenti da più di un secolo, si aggrappa alla memoria collettiva di un paese refrattario alla lettura. 
Che cosa è, dunque, questa poesia invincibile del 1903 – che ha superato indenne i mutamenti del gusto? Prima di tutto, è il racconto – straniato e spettrale – della scena chiave della biografia del poeta. Sabato 10 agosto 1867 Ruggero Pascoli, amministratore di una tenuta dei Torlonia, si reca col suo carrettino a Cesena, dove c’è la fiera, per incontrare un fantomatico signor Petri, in arrivo da Roma. L’uomo, chiunque sia, non si presenta. Intorno alle sei del pomeriggio Ruggero riprende le redini della cavalla e imbocca la via Emilia, per tornare a casa. È solo. Appiattati nel fosso, all’altezza di Gualdo, lo aspettano due “uomini atroci”. Una fucilata raggiunge Ruggero Pascoli alla testa. Si accascia nel carretto – ma non ne viene sbalzato. E la cavalla lo conduce ugualmente a San Mauro – dove lo aspetta la moglie, nonché madre dei suoi otto figli (la più grande, Margherita, non ha ancora diciassette anni, mentre Giovanni, detto Zvanà®, ne ha dodici, e in quel momento è a Urbino, nel collegio degli Scolopi). Ma Ruggero Pascoli è già  morto. Le indagini, lacunose e svogliate, non portano a nulla. Le piste più probabili – rivalità  professionali e politiche – vengono ignorate. In paese le voci girano, ma il colpevole non sarà  mai perseguito. L’omicidio segna la dispersione della famiglia: la vedova e gli orfani, sfrattati, iniziano una vita randagia, segnata negli anni seguenti da un’infinità  di sventure (muoiono la sorella Margherita, la madre, i due fratelli maggiori). 
Zvanà® non riesce a elaborare il lutto: la morte del padre diventa un’ossessione. Sa che se Ruggero non avrà  giustizia, lui non sarà  mai libero. Non smette di cercare la verità . Anni dopo, come un detective, durante le vacanze estive a San Mauro ancora gira per trattorie a far domande col fratello Falino: raccoglie dicerie, allusioni, il nome del mandante. Ma all’appuntamento con un presunto testimone oculare riceve solo botte, minacce e l’ordine di piantarla. Così rinuncia all’idea di ottenere giustizia in tribunale. Come Amleto, Giovanni non vendicherà  il sangue del padre. Si iscrive all’università , si diverte, frequenta anarchici e socialisti, si fa arrestare, trascorre quasi tre mesi in carcere, si laurea, diventa professore di latino, comincia a scrivere poesie. Ma non ha dimenticato. Dedica il suo primo volume, nel 1892, Myricae, a “Ruggero Pascoli, mio padre”. E finalmente – ormai lontano molti anni e molti chilometri da quello sparo – può erigere il suo “monumento espiatorio”, e torna sulla scena del delitto. La poesia X agosto compare sul Marzocco il 9 agosto 1896 (sarà  inclusa nella 4a edizione delle Myricae, 1897). Però Giovanni ancora si protegge ammantando i fatti col simbolismo insistito della rondine che torna al nido, del pianto cosmico delle stelle sul male del mondo e della passione del padre come nuovo Cristo. 
Sette anni dopo, nei Canti di Castelvecchio, non traveste più la tragedia familiare: nella Cavalla storna la trasforma in una leggenda. Ricorda ciò che non ha visto – con la lucidità  allucinata dei sogni. I pioppi, le greppie nella stalla, il bosco buio. La morte è respinta fuori scena – resta solo la corsa dell’animale a briglia sciolta, il silenzio della notte, il monologo patetico della madre (ormai divenuta un fantasma infestante nella sua poesia) e il linguaggio non-verbale della cavalla. La poesia è una ballata ipnotica: gli endecasillabi galoppanti in rima baciata ripetono la cavalcata del carretto fantasma, e le parole diventano puri suoni. Il nome dell’assassino è un nitrito. Ciò che conta, non può essere detto – e accade oltre il testo. Pascoli ha trovato l’assassino del padre. La Cavalla Storna è il suo processo e la sua condanna. 
Gli abitanti della Romagna, però, non hanno dimenticato. Per il centenario della morte del poeta, a San Mauro è stata allestita nel Museo di Casa Pascoli la mostra curata da Rosita Boschetti “Il complotto. Il delitto di Ruggero Pascoli: un mistero da svelare”, aperta fino al 24 giugno. Forse una delle ragioni dell’irresistibile popolarità  di Pascoli è questo suo essere così italiano. Siamo un paese senza verità . Le nostre stragi sono rimaste impunite, le vittime non riscattate, le loro famiglie ridotte a un lugubre coro. Chiunque può capire il dolore di una vedova che parla con un equino. Anche se non sa cosa significa la parola “storna” (banalmente: grigia). Ma vedete la magia del prestigiatore Pascoli: lo “storno” è anche un termine del gergo delle armi. Indica il rinculo del fucile quando spara. E il movimento retrogrado della pallottola, che incontrando un ostacolo rimbalza e torna indietro. Una poesia può essere un’arma da fuoco – un proiettile da conficcare nella coscienza dell’assassino.


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