Sayef e i bambini di Falluya nell’ospedale degli orrori

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Fallujah (Iraq) Per il piccolo Sayef non ci sarà  primavera araba. Giace su una coperta rossa distesa sul pavimento, di tanto in tanto piagnucola, la sua testa è enorme, è cieco e paralitico. I genitori dicono che sorride quando gli altri bambini vanno a fargli visita. Ma non saprà  mai nulla del mondo che lo circonda e non potrà  godere delle libertà  del nuovo Medio Oriente. Vive in una prigione destinata a rimanere chiusa per sempre.
Le famiglie di Fallujah i cui bambini sono venuti al mondo, come dicono i medici, “con anomalie congenite” non gradiscono la visita di estranei e considerano la condizione dei loro figli una vergogna. In realtà  queste atrocità  sono la diretta conseguenza dei bombardamenti americani del 2004 e del 2007. A lungo gli americani hanno negato l’impiego di bombe al fosforo e solo dopo molte insistenze hanno ammesso di averle usate solo nel 2007 contro alcuni edifici. Dinanzi a casa di Sayef montano la guardia due poliziotti armati e altri due ci seguono in casa. “Penso che mio figlio sia nato così a causa delle bombe al fosforo”, mi dice il padre di Sayef. “So di molti altri casi di difetti congeniti. Deve esserci una ragione”. Dagli studi clinici emerge che dal 2004 a Fallujah c’è stato un significativo incremento della mortalità  infantile e dei casi di cancro. Nascono mal-formati il 15% dei bambini. Una percentuale impressionante. “Mio figlio si detesta”, dice Mohamed. “Muove solo le mani e dobbiamo nutrirlo con il biberon”.
MOHAMED prende le gambe inerti del bimbo e le muove in alto e in basso delicatamente: “Quando è nato lo abbiamo portato a Baghdad dove lo hanno visitato i migliori neurochirurghi del Paese. Lo hanno sottoposto a due interventi, ma il primo non è riuscito perfettamente”. Mohamed e la moglie hanno anche due figlie, nate prima dei bombardamenti. Le bambine sono in perfette condizioni di salute. Mentre parliamo, Mohamed non smette mai di guardare il piccolo Sayef, poi lo prende in braccio. “Ogni volta che guardo mio figlio, mi sento morire dentro”, mi dice piangendo. Gli chiedo di chi sia la colpa di questo calvario. Mi aspetto una tirata contro gli americani, il governo iracheno o magari il ministero della Salute. Mohamed, invece, resta qualche minuto in silenzio poi con un filo di voce dice: “Chiedo solo l’aiuto di Dio. Non mi aspetto l’aiuto di nessuno”. All’altro capo della città  c’è l’Ospedale generale di Fallujah, un vero teatro degli orrori. Nadhem Shokr al Hadidi mi riceve nel suo ufficio e mi mostra una serie di foto di bambini nati morti: un bimbo con una bocca enorme e deforme, un altro bambino con un solo occhio gigantesco come un Ciclope, un altro ancora che ha solo metà  della testa e infine una piccola creatura che ha metà  braccio destro, non ha la gamba sinistra né i genitali.
MENTRE guardiamo le foto entra una dottoressa: “In tutta la mia carriera non avevo mai visto nulla del genere”, dice con voce sommessa. “Molti li ho fatti nascere io”, aggiunge quasi fosse una colpa. Le foto sono tremende. L’emozione e il dolore nel guardarle quasi intollerabili. E tuttavia c’è nei medici di Fallujah un atteggiamento che faccio fatica a capire. Di queste deformità  ormai si sa tutto, ma non sono state adottate misure per effettuare una diagnosi prenatale. Me lo fa osservare una ostetrica irachena che ha studiato in Gran Bretagna e che, con i suoi risparmi ha comprato un macchinario che consente di individuare le anomalie congenite nel feto. “Sono andata al ministero della Salute”, mi racconta. “Mi hanno detto che avevano istituito una apposita commissione. Ho parlato con la commissione. Ho scritto, ho implorato. Non mi hanno nemmeno risposto”.
Mi colpisce l’onestà  intellettuale dei medici dell’ospedale di Fallujah, che mi invitano a non tirare conclusioni affrettate. Mentre sullo schermo passa un’altra foto, l’ostetrica mi dice: “Questo bambino l’ho fatto nascere io. Non credo c’entrino le bombe americane. I genitori erano parenti stretti. Credo fosse questo il problema”. La dottoressa Sa-mira Allani, seduta al mio fianco, commenta le foto: “In realtà  sono tutte anomalie piuttosto comuni, ma è allarmante il numero”. Ci alziamo e la dottoressa mi porta nella sala dell’incubatrice dove – grazie al permesso dei genitori – posso vedere il piccolo Zeid Mohamed che ha appena 24 giorni di vita. Suo padre è un agente di polizia. Sono sposati da tre anni. Il piccolo Zeid ha solo quattro dita per mano.
I genitori addolorati fanno domande, chiedono risposte. Invano. Né gli iracheni né gli americani né gli inglesi né le Ong sembrano disposti ad aiutarli. Anche questo muro di gomma è un aspetto della tragedia di Fallujah. Uno dei medici mi dice che l’unico aiuto concreto lo hanno ricevuto dal dottor Kypros Nicolaides, direttore del reparto di medicina prenatale del King’s College Hospital. Gli telefono.
È furibondo: “L’aspetto criminale di questa tragedia è che, all’epoca della guerra, americani e inglesi non si presero nemmeno la briga di spendere qualche migliaio di dollari per comprare qualche computer e tenere il conto dei morti. Secondo Lancet i caduti furono 600 mila. Ora in Iraq il numero delle anomalie congenite è abnorme. Sarebbero necessari studi epidemiologici, ma nessuno si muove”.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto


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