Un «bardo» italiano negli Stati Uniti

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Sosteneva Erodoto che una buona storia è sempre utile al saggio lettore, e allora vale forse la pena recuperarne una dall’oblio, che funga da eco, nell’anno del centenario di una delle mobilitazioni dei lavoratori più significative del secolo scorso, che ebbe luogo a Lawrence (Massachusetts) e che le cronache del tempo ribattezzarono come lo «sciopero del pane e delle rose» (Bread and Roses). 
Anche se Wikipedia fa risalire la paternità  di questo slogan a una poesia di James Oppenheilm, altri pensano che il merito si deve attribuire al poeta e sindacalista italoamericano Arturo Giovannitti, che dopo aver lasciato sedicenne la natia Ripabottoni, divenne in un decennio una delle personalità  più note del movimento operaio americano. Lo sciopero di Lawrence durò poco più di due mesi, dall’11 gennaio del 1912 al 14 marzo quando i proprietari delle fabbriche tessili accolsero le istanze dei manifestanti, e fu il primo in cui lavoratori immigrati di diverse nazionalità  si unirono per lottare insieme superando le divisioni culturali ed etniche. 
Gli italiani formavano il gruppo più numeroso e tra di loro c’era Giovannitti, inviato del foglio newyorkese «Il Proletario» vicino alle posizioni del sindacato dei lavoratori industriali (Iww) nato in opposizione alle organizzazioni tradizionali spesso xenofobe verso i nuovi venuti. Figlio della borghesia benestante molisana, educato al protestantesimo d’ambito rurale diffusosi lungo i percorsi della transumanza, si unì ai due milioni di italiani che nei primi del Novecento emigrarono in America, finendo spesso per lavorare nelle miniere di carbone e ferro o nelle aziende manifatturiere, esposti, come i migranti in Italia oggi, a lavori pericolosi e al cinismo dei procacciatori di manodopera. Proprio l’impatto con la dura realtà  industriale americana segnò il passaggio da un umanitarismo giovanile di matrice verista al socialismo e al radicalismo politico (e al sindacalismo rivoluzionario di George Sorel), ma Giovannitti non fu mai organico a un partito o al sindacato – e ciò spiega forse, più delle accuse di essersi venduto al tradeunionismo durante il New Deal di Franklin D. Roosevelt, la solitudine e lo stato di abbandono che segnarono i suoi ultimi anni di vita; ne promosse semmai le azioni di lotta dalla sua posizione di intellettuale, usando le armi dell’oratoria, del giornalismo d’inchiesta, della poesia civile. 
Il suo ruolo, sulla piazza di Lawrence, fu quello di infondere negli animi degli scioperanti l’autostima e la coscienza di classe, poggiando sull’enfasi retorica dai quali non sono esenti una parte dei suoi versi, tanto quelli in inglese quanto quelli nella lingua madre, che gli valsero gli appellativi di «poeta dei lavoratori» o «bardo della libertà » (questo anche il titolo di una collezione di saggi curata da Norberto Lombardi per l’editore Cosmo Iannone), secondo un eccesso d’eloquenza, vessillo dei tempi, che verrà  satireggiato anni dopo da un figlio di quella migrazione come John Fante. 
Giovannitti fu uomo erudito, a suo agio nel classicismo carducciano, e, più indietro, tra i madrigali e l’Ulisse di Monteverdi come confesserà  a un altro poeta italoamericano, Joseph Tusiani, quando questi lo andrà  a trovare nel suo scantinato al poco prima della morte; il necrologio apparso sul «New York Times nel 1959 lo rese una macchietta» – «barba alla Van Dyke, colletto alla Lord Byron e cravatta sciolta» – più veritieri appaiono tributi come questo, di un minatore del Western Pennsylvania: «Egli ci fu di guida e ci spronava con la sua parola facile». 
Il 29 gennaio del 1912, a Lawrence, venne uccisa dalla polizia una giovane donna, Anna LoPizzo, un manifestante, Joseph Caruso, fu accusato dell’omicidio, mentre Joe Ettor e lo stesso Giovannitti vennero arrestati come mandanti. L’accusa era assurda perché nessuno dei tre si trovava vicino alla scena del delitto e i leader italiani non conoscevano Caruso. Si formò un comitato di difesa, in molte parti del mondo si tennero manifestazioni a sostegno dei prigionieri, 12.000 lavoratori delle fabbriche di Lawrence marciarono fino alla prigione chiedendo l’immediata scarcerazione, ma i tre erano stati trasferiti a Salem, la cittadina della caccia alle streghe. Il processo terminò dopo cinquantasei giorni, il 26 novembre, e l’Appello alla giuria in inglese di Giovannitti, che stupì per eloquenza ed erudizione, e nel quale rivendicava con orgoglio la sua vita e i suoi ideali paragonando la lotta per l’emancipazione delle classi lavoratrici al messaggio rivoluzionario di Socrate e di Cristo, fu l’arma in più della difesa. 
Durante la prigionia scrisse uno dei suoi capolavori, The Walker, poema sul desiderio di libertà , che gli valse l’ingresso nei circoli bohémien del Greenwich Village (da queste due opere Stefano Sabelli ha tratto lo spettacolo L’autodafé del camminante in scena fino al 16 aprile al Teatro Lo Spazio di Roma). Gli anni dieci furono i più importanti della sua vita, sostengono i più, compreso il figlio (che chiamò Lenin), relativizzando un po’ tutto il resto, dalla scelta pacifista nella Prima Guerra Mondiale a quella dell’antifascismo, nonostante l’adesione al regime di gran parte degli italoamericani, dal riposizionamento verso il compromesso nelle vertenze sindacali all’impiego da retore d’occasione, come un attore famoso sul viale del tramonto. 
«Perché l’uomo che possiede gli utensili di cui si serve un altro per lavorare – disse Giovannitti nella sua autodifesa – l’uomo che è proprietario della casa nella quale vive un altro, l’uomo che è padrone della fabbrica in cui altri vanno a lavorare, quest’uomo domina e controlla il pane che l’altro mangia; di conseguenza ne domina e controlla la mente, il corpo, il cuore, l’anima». Parole attuali in tempi in cui ètornata evidente la vulnerabilità  dei lavoratori e l’oscenità  del plusvalore, e in cui si è assistito a una santificazione calvinista del possesso del denaro.


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