Un’impietosa fotografia della disfatta

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«Qualcuno era italiano»: sotto questo titolo che rimanda a una famosa canzone di Giorgio Gaber, Paolo Ercolani, studioso del pensiero politico e già autore di saggi su Marx, Tocqueville e Hayek, ha raccolto una serie di interventi sulla crisi italiana, usciti sulla rivista Critica liberale e qui pubblicati insieme a un sostanzioso dialogo tra l’autore e Carlo Freccero su tv, media e politica (Qualcuno era italiano. Dal disastro politico all’utopia della rete, Mimemis, pp. 236, euro 18,00).
La domanda di fondo è molto semplice: come abbiamo fatto a ridurci così? Ripercorrendo anche diverse vicende di cronaca il libro ci dà l’impietosa fotografia di una disfatta: l’Italia è un paese in declino, senza mobilità, dove cricche, caste e grandi famiglie si spartiscono denaro e potere in modo arrogante e mafioso; un paese con una classe politica incapace di leadership, e dove il merito non conta nulla. Infine, una nazione che pesa sempre meno sul piano internazionale, sia economicamente che culturalmente. Come siamo arrivati a questo punto? Rispondere non è facile. Certo, si può battere finché si vuole – ed Ercolani su questo non si risparmia – sui guasti e i disastri del ventennio berlusconiano. Ma è troppo poco. I nostri problemi vanno visti anche in una prospettiva un po’ più allargata. Molto interessante è un punto sul quale Ercolani e Freccero si trovano d’accordo: con la caduta del muro di Berlino, l’Italia ha cessato di essere un paese di frontiera tra Est e Ovest, rilevante sul piano geopolitico; ed è diventata una provincia marginale, che ci ha messo anche del suo per emarginarsi ulteriormente. Neanche questo basta, però: c’è infatti anche una «lunga durata» dei mali italiani che non si può dimenticare: non sto a rifarne l’elenco (una nazione nata in ritardo, sempre spaccata tra Nord e Sud, con dentro un ingombrante Stato sovrano come il Vaticano, ecc. ecc.); mi limito a osservare che ci deve essere qualcosa che non va in un paese che in un secolo si è dato tre leader come Mussolini, Craxi e Berlusconi.
All’uomo di Arcore il volume dedica molte pagine. Forse, anche troppe. Per carità, le colpe del padrone di Mediaset non si contano. Qualche volta però bisognerebbe anche chiedersi se Berlusconi sia più il sintomo o più la malattia. E, soprattutto, è indispensabile mettere a fuoco che, al di là della peculiare e nostrana forma grottesca, le fondamentali scelte politiche sono state, in Italia, simili a quelle di molti altri paesi: riduzione del welfare, sedicenti «riforme» strutturali, compressione dei diritti, ecc. Una sola ricetta di base, applicata con le dovute differenze locali.
In quest’ottica, anche i passatempi di Berlusconi hanno un interesse molto relativo. Il personaggio, però, un problema assai serio ce lo deve comunque porre. È possibile che nel gioco democratico uno dei protagonisti sia, al tempo stesso, leader di un partito politico, imprenditore dotato di un enorme patrimonio e proprietario o controllore di un’ampia quota dei mezzi di comunicazione di massa? Se a qualcuno è consentito di giocare contemporaneamente tre ruoli così importanti, è evidente che la partita non è ad armi pari, ma è pesantemente truccata; di democrazia ce ne rimane davvero molto poca. L’enorme patrimonio già ti consente di farti un partito politico e di comprarti il personale adeguato (o almeno ci dovresti riuscire); se ci aggiungiamo anche il controllo di metà dei grandi media del paese o giù di lì, si va davvero oltre il limite.
Il caso Berlusconi ci fa vedere il problema in tutta la sua acutezza; ma la questione ovviamente ha una portata molto più generale, riguarda cioè sia il rapporto tra denaro e politica, sia quello tra sfera pubblica democratica e monopolizzazione dei media in poche mani. Su questo punto, Ercolani ha perfettamente ragione quando sostiene, nelle conclusioni «propositive» del suo libro, che la decenza democratica impone che si trovino delle regole idonee, se non a eliminare, almeno a limitare il più possibile tutte queste indebite commistioni che rendono il gioco democratico sempre più sbilanciato. Cerchiamo almeno, come direbbe il filosofo americano Michael Walzer, l’autore di Sfere di giustizia, di distinguere un po’, con qualche paratia stagna, i diversi ambiti.
L’altra grossa questione sulla quale il libro insiste dal principio alla fine, perché effettivamente è uno dei grandi nodi italiani, è quella della «meritocrazia». La parola, a dire la verità, non convince del tutto: non credo infatti che ai meritevoli spetti il kratos, il potere o l’autorità; quelli preferirei lasciarli al demos. Condivido completamente, però, la sostanza del discorso di Ercolani, che io esprimerei piuttosto così: l’Italia è un paese in cui si commettono troppe ingiustizie (a vantaggio di parenti, portaborse, intriganti vari) e questo è un malcostume col quale bisogna finirla. L’indignazione dell’autore, su questo punto, è sacrosanta. Come lo è il rilevare che condannare il malcostume non basta.
L’altro nodo non meno decisivo è che l’Italia non investe sulle sue intelligenze, non le sostiene e spesso le costringe scandalosamente ad andarsene. Di quel poco che si investe, inoltre, sempre meno va alla cultura umanistica: una scelta del tutto autolesionista per un paese come il nostro, che dispone di un immenso patrimonio culturale in buona parte non ancora valorizzato. Perciò direi, d’accordo con l’autore, che probabilmente è proprio da qui, dall’investimento sulle nuove intelligenze e sulla cultura, che si dovrebbe ricominciare per dare almeno il segnale di una possibile inversione di tendenza.


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