Versioni di comodo della difesa giudici inerti. Vittima la verità 

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A distanza di 12 mesi dalle quelle ore terribili, mentre oggi centinaia di compagni ed amici di Vik si riuniranno a Gaza per le commemorazioni ufficiali, l’assassinio di Vittorio resta in gran parte senza risposte. Troppi sono i lati oscuri di questo crimine. Se la procura di Gaza è stata in grado di risalire in poche ore ai responsabili del rapimento e dell’uccisione di Vik, invece i giudici della corte militare non sono stati altrettanto solleciti. Il processo è stato segnato sin dal suo inizio, lo scorso settembre, da udienze lampo, dall’assenza frequente dei testimoni e dalle manovre della difesa volte unicamente a guadagnare tempo. 
In questi mesi abbiamo assistito a un procedimento sostanzialmente regolare, aperto al pubblico e alla stampa. Ma non si può tacere sul fatto che la corte è stata troppo accondiscendente nei confronti delle strategie degli avvocati della difesa. Per quasi un anno abbiamo visto testimoni chiamati di fronte ai giudici solo per confermare le deposizioni fatte durante le indagini. Il dibattimento quasi non c’è stato. Dopo una quindicina di udienze, finalmente giovedì scorso agli imputati è stato chiesto di spiegare i motivi del rapimento di Vik. A questo punto è arrivato il colpo di scena: tre dei quattro imputati – Mahmud Salfiti, Tarek Hasasnah e Khader Jram (il quarto Amr Abu Ghoula è accusato solo di favoreggiamento) – hanno ritrattato, sostenendo di aver confessato sotto pressione. E, più di tutto, hanno dichiarato, con una versione copia e incolla, di non aver partecipato al sequestro allo scopo di scambiare l’ostaggio italiano con lo sceicco salafita al Maqdisi (detenuto a Gaza) – come avevano ammesso – ma di avervi preso parte «per dare una lezione» a Vittorio che, a loro dire, conduceva una vita «immorale». E per rendere più convincente il loro racconto hanno persino fornito particolari su questa condotta poco in linea con i costumi locali.
Vik sapeva dove viveva e a Gaza conduceva una esistenza tranquilla, rivolta quasi interamente all’impegno politico e umano a sostegno dei palestinesi. Ed era accorto ad evitare che la sua vita privata potesse emergere in qualche modo. Ma il punto non è questo. Gli imputati, fabbricando questa versione, ex novo tentano di cucirsi addosso il ruolo di «giovani tutori della moralità » di Gaza. Il fine è chiaro: vogliono scaricare ogni resposabilità  sul giordano Abdel Rahman Breizat e il palestinese Bilal al Omari, i «capi» della cellula salafita che non possono confermare o smentire questa versione perché sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia di Hamas. Non sapevamo nulla dei piani di Breizat e Omari – provano a spiegare i tre imputati – dovevamo rapire Vittorio Arrigoni solo per qualche ora e spaventarlo. Gli altri due invece avevano deciso di scambiarlo con al Maqdisi ma a noi non lo avevano detto. 
Di fronte a questa svolta a 180 gradi, a questa versione inverosimile, il pubblico ministero e la corte hanno avuto una reazione soft. Piuttosto avrebbero dovuto mettere gli imputati a confronto, parola per parola, con le loro confessioni. Perchè troppo particolareggiato è stato il racconto dell’accaduto che Hasasnah, Salfiti e Jram hanno fatto davanti agli inquirenti per essere frutto solo di «pressioni» e «intimidazioni». Salfiti ha anche rivelato che tutti erano d’accordo, già  prima del rapimento, «sull’eliminazione dell’ostaggio» in caso di mancata scarcerazione di al Maqdisi. Il pubblico ministero inoltre avrebbe dovuto chiedere agli imputati maggiori chiarimenti sulla figura del «capo», Abdel Rahman Breizat. Spuntato apparentemente dal nulla, questo giovane giordano ha compiuto un assassinio feroce avendo forse alle spalle una regia esterna. Ipotesi alla quale gli inquirenti di Hamas non hanno mai lavorato seriamente (perché?). 
Certo potrebbe farlo alla prossima udienza, il 14 maggio (che, secondo voci, sarà  l’ultima), ma ormai è difficile credere che da questo processo si arriverà  all’accertamento della verità . Tanti interrogativi rimarranno senza risposta, anche dopo la sentenza, lasciando la famiglia Arrigoni senza le uniche cose che ha chiesto alle autorità  di Gaza: giustizia e trasparenza. Infine non si può non notare l’atteggiamento avuto dalle autorità  italiane. Certo l’Italia, come il resto dell’Ue, non ha rapporti con Hamas ma avrebbe dovuto far sentire la sua voce in altri modi, per vie indirette. Non l’ha fatto, anzi, ha scelto di non farlo. Non ha mostrato considerazione nei confronti di un italiano che non predicava violenza ma invocava diritti per la gente di Gaza e ci chiedeva di rimanere sempre e comunque umani.


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