Da Bassani a Zavattini, così l’Arte ha Descritto la Terra dell’Armonia

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C’ è una relazione speciale tra l’Emilia e i suoi scrittori. Mentre i siciliani guardano alla loro terra con gli occhi offesi della tragedia o con lenti deformanti, mentre i lombardi osservano i propri dintorni con disincanto moralistico-civile e i romani con quel tanto di autoironia e di sarcasmo, i poeti e narratori emiliani mostrano, per i loro luoghi naturali e urbani, una devozione carica di riconoscenza e di serenità . Deve essere la stessa che nutrono i cittadini di quelle regioni per i loro contesti. Grati per un raggiunto equilibrio — tra natura e storia — capace più che altrove di trasmettere una sorta di intima armonia. Giorgio De Chirico descrisse il ferrarese di campagna Corrado Govoni immerso in uno stato di trance e di appagamento nell’ammirare la sua città : «Tutta notte egli ha vegliato, guardando / la piazza, e il castello rosso, e il fiume chiaro…». Non per nulla fu proprio Ferrara il centro della pittura metafisica. Per Giorgio Bassani, la sua città  era «un piccolo segregato universo» che immaginava di riattraversare in macchina, anche dopo aver chiuso gli occhi per sempre: «Scendere ancora una volta dal Castello Estense giù per corso Giovecca verso il roseo ghirigoro terminale della Prospettiva». Insomma, non una città , ma un’architettura del sentimento. 
Se si passa a Modena, le cose non cambiano molto con quel grande minore che è sempre stato Antonio Delfini, per il quale persino l’odore di muffa sotto il portico di Corso Umberto diventa un profumo indimenticabile. In un brano intitolato Ritorno in città  Delfini immagina di scendere dal treno e di ritrovare esattamente i luoghi amati dell’infanzia: «Ho guardato in estasi la mia città  piena di nebbie… Anche quest’anno la carrozza scorreva rumorosamente sull’acciottolato. Le botteghe del corso, il rumore dei tram, l’orologio del palazzo ducale, la gente che rincasava per l’ora di cena, eran sempre così». Una città  di provincia che, direbbe il bolognese Roberto Roversi, «non si consuma di noia, ma invecchia ogni giorno». Certo, il tempo è passato, rimane però la stessa serenità  quotidiana, la civiltà  nobile di sempre, come quella che lo stesso Delfini riscontra nella cittadina vicina: «Mi era pur stata di cara compagnia l’immagine di lei, e la città  di Carpi era diventata il sogno dei miei sogni, con quella grande piazza e sullo sfondo il Duomo, e il generale a cavallo che guarda il grande edificio delle cento e più finestre, e dietro ha l’immenso castello». Che pace distesa e morbida. Un siciliano (e forse anche un ligure e forse anche un milanese) avrebbe fatto ricorso alla nostalgia dilaniata, al risentimento per ciò che si è perso, deturpato: avrebbe visto più la minaccia, le fratture che la continuità . 
E poi c’è la provincia-provincia. Non quella urbana, ma la provincia sperduta di campagna, quella più simile a Mirandola o a Finale (dove peraltro è nato il narratore padanissimo Giuseppe Pederiali, che fa muovere i suoi personaggi storici proprio dentro il Ducato di Modena). Mario Soldati invidiava all’amico Cesare Zavattini la sua Luzzara, da cui l’autore di Ladri di biciclette, pur avendo molto viaggiato per il mondo, in definitiva non si era mai allontanato. Soldati ricordava una serata passata con l’amico nel suo paese, e si soffermava sulla cena in trattoria come se parlasse della chiesa e del campanile di Luzzara: elencava con devoto rispetto gli antipasti, la spalla di maiale calda, le tagliatelle fatte in casa, i lessi con fagiolini, il brasato, i peperoni, i formaggi e il vino scuro ma leggermente frizzante. Prodotti di una antica civiltà  esattamente come i muri dei palazzi nobiliari o borghesi, la chiesa parrocchiale, i monumenti; esattamente come le chiacchiere notturne tra amici. 
Forse Soldati avrebbe invidiato anche ad Attilio Bertolucci la sua San Prospero, il borgo vicino a Parma in cui nacque il poeta: anche Bertolucci, pur essendo partito presto per Roma, è come se non avesse mai lasciato il suo paesaggio rurale parmigiano, fino a elevarlo a una «dimensione morale», a «tramite per intendere l’erompere della natura, modo per scovare i conflitti della storia». Infatti, nel formidabile romanzo in versi La camera da letto torna presente il suo mondo delle origini come fosse narrato sul posto, dalla costruzione della casa avita sull’Appennino alla minuta vita familiare fotografata nel suo ambiente di quiete e umile decoro: i «poderi medi, / ben coltivati, allegri di civili, / atti, per stanze utili, salette / ombrose e torricelle signorili, / ai bisogni di questa borghesia / della terra che si affranca, ma tiene / rustico e stalla legati alla villa…». 
Insomma, una fedeltà  serenamente appagata: che si traduce in sgomento quando viene tradita dalla furia degli eventi naturali, siano essi un terremoto o un’alluvione. Veri e propri traumi per luoghi dell’anima fondati su un’armonia e un equilibrio millenari. È il turbamento con cui Giovanni Guareschi racconta la pioggia biblica che si rovesciò su Brescello dopo l’esilio di don Camillo: «Incominciò a piovere. E pioveva dappertutto; al piano e al monte. E le saette spaccavano le vecchie querce, e il mare era sconvolto dalla tempesta, e i fiumi incominciarono a gonfiarsi e, siccome continuava a piovere, presto sfondarono gli argini e allagarono le città  e copersero di fango intere borgate». Sono, più o meno, le borgate oggi sconvolte da quello che è stato battezzato il sisma infinito: ognuna con il suo orologio, con la sua torre civica, con i suoi palazzi borghesi, con il suo castelletto, con le sue contrade quattrocentesche o cinquecentesche. Storie antiche entrate nel panorama intimo delle persone, nel metabolismo civile della collettività , nel tessuto psicologico ed espressivo della poesia.


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