La falsa legge degli affari e la natura del capitale

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Una rivisitazione lucida, estremamente dettagliata e di grande attualità  di come gli economisti, dalla prima metà  dell’Ottocento fino ad oggi, hanno studiato e interpretato le crisi e i cicli economici, ci è offerta dal volume Crises and Cycles in Economic Dictionaries and Encyclopedias (Abington-New York, Routledge, pp. 676). Curata da Daniele Besomi, tra i più importanti storici del pensiero economico contemporanei, con contributi di diciotto economisti articolati in ventotto capitoli, questo lavoro parte dalle voci di dizionari e enciclopedie che, nel tempo, sono state assegnate a economisti per presentare in modo «pedagogico», non solo per specialisti, il funzionamento contraddittorio dell’economia capitalista, il suo movimento palindromico tra espansione, recessione e crisi, con particolare attenzione alle cause di tali ricorrenze, siano esse di tipo «esogeno» o «endogeno», una distinzione ancora molto presente nel modo di interpretare la crisi scoppiata nel 2008 e tuttora in corso. Ne esce un quadro complesso e affascinante, in cui dalle analisi della prima metà  dell’Ottocento delle molteplicità  di cause prese in esame, come gli errori della politica economica, i cattivi raccolti, o il ruolo del credito e della finanza in tempi non ancora sospetti, si giunge ai primi tentativi di elaborazione di teorie generali della crisi, alla sua periodicità , per finire con le più recenti analisi sempre più tecnico-empiriche del «ciclo economico reale» poco o punto preoccupate di render conto dei grandi temi del valore, della redistribuzione della ricchezza e dello sviluppo economico così centrali tra gli economisti classici.
Oltre la Legge di Say
Lo sguardo retrospettivo sulle teorie del ciclo e della crisi, sul loro rapporto all’interno di un capitalismo in costante mutazione e espansione, permette di fissare alcuni passaggi salienti nel modo di rappresentare i processi contraddittori dell’accumulazione capitalistica. Il primo è la critica della Legge di Say, di quell’identità  tra offerta e domanda che, a partire da John Stuart Mill e poi da Marx, fino a J.M. Keynes e oltre, evidenzia nella funzione del denaro come riserva del valore, e non solo come mezzo di scambio, la possibilità  della rottura della catena degli scambi (tesaurizzazione o, keynesianamente, «preferenza per la liquidità ») e, quindi, della possibilità  della crisi come conseguenza di tale rottura degli scambi. Wilhelm Roscher, uno degli economisti tedeschi più influenti della seconda metà  dell’Ottocento, ne parlerà  nella sua «voce» (1849), non senza farsi accusare di plagio da Marx, ma tuttavia ponendo le basi, come scrive Harald Hagemann, alle successive analisi delle crisi. Comunque lo si interpreti, Roscher è l’esempio, come molti degli economisti presi in esame dagli autori di Crises and Cycles, di come lo studio della stesura di voci di dizionari costituisca un «genere» e una sorta di spia dello spirito del tempo, in cui alle conoscenze acquisite e alla ricerca scientifica «storicamente determinate» si accompagna una funzione divulgativa a beneficio di un pubblico di non addetti ai lavori.
La crisi della Legge di Say, che Marx sviluppa nel primo Libro del Capitale sulla base della teoria del valore-lavoro e del denaro nella sua funzione di equivalente generale, si rivelerà  ben presto un rompicapo in quanto non sufficientemente radicale. La spiegazione della crisi a partire dalla rottura della catena degli scambi, infatti, rimanda alla possibilità  della crisi da sovrapproduzione, ma non ancora alla sua realtà . Tant’è vero che già  nel 1866 Adolf Wagner, come scrive Vitantonio Gioia, cercherà  di dimostrare che la Legge di Say e l’equilibrio fondamentale tra domanda e offerta su cui poggia, non è necessariamente inficiata dalla presenza del denaro, anzi la speculazione finanziaria può avere una funzione di regolazione ottimizzando l’allocazione del capitale. La sovraspeculazione, questa sì, porta allo squilibrio tra offerta e domanda, col credito che alla fine diventa più caro, la crescita che si arresta e il panico, la «corsa agli sportelli», che esplode. Le osservazioni di Wagner evocano non poche delle odierne interpretazioni della crisi finanziaria, salvo che a tutt’oggi non risolvono il problema del rapporto fondamentale tra domanda e offerta posto da Say, il fatto che, quando la sovraspeculazione (l’overtrading) collassa, la sovrapproduzione si manifesta sistematicamente con tutta la sua forza devastante. Il venir meno della «domanda aggiuntiva» generata dalla sovraspeculazione non riporta all’equilibrio, come logicamente ci si dovrebbe aspettare, bensì all’eccesso dell’offerta sulla domanda, un eccesso che in tal senso si può supporre strutturale, consustanziale al ciclo economico.
C’è, deve esserci una causa delle crisi più profonda del ciclo economico stesso, qualcosa che trascende il sottoconsumo, dato che le crisi, tra l’altro, scoppiano quando il consumo è al suo livello più elevato. È quanto Daniele Besomi e Giorgio Colacchia ricercano con grande intelligenza nel capitolo conclusivo dedicato ai dizionari del secondo dopoguerra. «Le crisi ricorrono perché la contraddizione è permanente e la sua risoluzione, attraverso la crisi, è necessaria ma può solo essere temporanea». La previsione di Albert Aftalion del 1913, secondo cui nei decenni successivi il termine crisi (…da sovrapproduzione) sarebbe stato sostituito dal termine business cycle, si rivelerà  solo parzialmente corretta, dato che, dopo la parentesi dei Trenta Gloriosi durante i quali non solo il termine crisi, ma addirittura la nozione di fluttuazione economica lascerà  il posto alle teorie della crescita, a partire dagli anni Novanta si assiste al fenomeno inverso, ossia al prevalere degli studi della crisi su quelli del ciclo economico. L’individuazione della crisi come una categoria «autonoma» rispetto al ciclo economico e alle sue fluttuazioni, è storicamente dimostrabile nella differenza delle voci dei dizionari precedenti e seguenti gli anni Novanta del secolo scorso. 
Una patologia logica 
La teoria marxista delle crisi, in particolare nei dizionari tedesco orientali, aveva certamente postulato l’indipendenza della crisi dalla teoria borghese del ciclo economico (A. Bà¶nisch, 1970-71). La crisi è «il punto più elevato delle contraddizioni della produzione, ma anche il punto in cui trova la sua soluzione attraverso la distruzione estensiva delle forze produttive». Di fatto, la crisi è la massima espressione del capitale come rapporto sociale, un rapporto che si invera nella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, un rapporto che, come sottolinea Nicolò De vecchi (1982), vieta di interpretare la marxiana caduta tendenziale del saggio del profitto come una legge naturale, appunto indipendente da tali rapporti sociali. La natura patologica delle crisi, l’indipendenza («logica») delle crisi dall’andamento ciclico degli affari, verrà  esplicitata, anche se non completamente sviluppata, da Pierluigi Ciocca (1991). La via è ora aperta per una interpretazione della crisi come evento autonomo, come espressione della immanenza della natura sociale del capitale.


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