Le nuvole rabbiose che offuscano il liberismo

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A più di un anno di distanza dalle Primavere arabe e in attesa dei risultati definitivi delle elezioni presidenziali in Egitto, continua la discussisone sul ruolo della Rete e il sedimento politico che quei tumultuosi eventi hanno lasciato. C’è una differenza tra l’uso delle nuove tecnologie nei regimi autoritari e in quelli democratici? È possibile rintracciare un filo comune dei movimenti sociali nell’uso delle nuove tecnologie? Ci troviamo di fronte a un cambiamento nel modo di produzione dell’opinione pubblica?
Su Twitter gira questa battuta: Se Twitter e Facebook non fossero esistite, la rivoluzione egiziana avrebbe avuto successo. Sottolineando così l’incapacità  del movimento cresciuto nei social network di esprimere un’organizzazione politica e un radicamento elettorale. Naturalmente non c’è la controprova, ma è noto che le Tv satellitari come al Jazeera, prima ancora di Internet, hanno aperto una squarcio nel velo della censura di Stato in Egitto, mettendo a nudo l’impotenza del regime nel governare le opinioni pubbliche attraverso un rigido filtro sull’accessibilità  dei fatti. Dal libro Rivoluzione 2.0 (Rizzoli 2012, pp. 318, euro 18), Wael Ghonim risponde indirettamente: «L’Egitto non cambierà  su Facebook ma Facebook può aiutarci a conoscere le notizie e a scoprire la verità  per prendere l’iniziativa nel mondo reale». 
La gabbia della Rete 
Consapevole dei limiti del web ma fiducioso nelle sue potenzialità , Ghonim – giovane manager egiziano di Google e mediattivista – coinvolge migliaia di giovani a partire da Facebook, che rapidamente arrivano a rivendicare diritti civili e politici, vincendo la paura di scendere in strada. Il rapido decorso degli eventi in Tunisia porta a un’accelerazione anche nel movimento egiziano. I giovani di Facebook si aprono al coordinamento con gruppi dalla più solida tradizione politica, fino a coinvolgere tutta l’opposizione organizzata, Fratelli musulmani compresi. A quel punto, non senza brutali tentativi di repressione, di fronte alla determinazione del popolo egiziano, incarnato in migliaia di giovani, islamici e cristiani, esasperati per la crisi economica e per l’assenza di prospettive, anche l’esercito abbandona Mubarak, ponendo fine al suo regime.
Il coinvolgimento emotivo è una delle possibili chiavi di lettura per spiegare la forza delle «comunità » cresciute sul web, da cui è scaturito l’inedito protagonismo di massa. La vittoriosa protesta tunisina ha incendiato un materiale umano pronto, cui mancava solo una scintilla per ardere tutta la propria rabbia. Un soggetto fluido e magmatico, la cui forza travolgente sgorgava dai legami intessuti su Facebook, dal riconoscersi in un’unica condizione, dall’individuare un comune nemico ma che ha saputo consolidarsi nelle piazze, fondendosi con tutti gli strati sociali e i gruppi politici insofferenti verso il regime. Una prima e parziale risposta ai quesiti iniziali. Sì, il modo di produzione dell’opinione pubblica può cambiare con la diffusione della Rete e tale cambiamento coglie di sorpresa, quando non travolge, i custodi e gli interpreti della tradizionale sfera pubblica borghese. In questo, le somiglianze tra l’insorgere dei movimenti al di là  e al di qua del Mediterraneo o dell’Oceano sono evidenti.
Condito da numerosi documenti delle rivolte – cui, per inciso, avrebbe giovato un ordine più leggibile – è il volume L’onda araba, curato da Salvo Vaccaro (Mimesis, pp. 246, euro 20) e che ospita analisi di intellettuali arabi e non. Sono analizzati i fattori scatenanti delle rivolte arabe. La bomba demografica, la diffusione dell’istruzione che genera aspettative poi tradite, la potenza comunicativa della Rete e l’azione di «Al Jazeera». A questi si aggiunge il risentimento verso le élite predatorie di fronte alla diffusa miseria Ma i testi delle rivolte, nella loro articolazione, restituiscono una ragione politica delle rivolte, incentrate su valori come la libertà , la dignità  umana e la giustizia sociale.
Un capitale senza confini
Le novità  politiche vanno colte a partire da quegli stessi giovani che si sono mobilitati nei social network, che lì hanno trovato uno spazio di discussione e di organizzazione e che da quella massa critica sono partiti per coinvolgere la popolazione nelle moschee e nelle strade. Novità  che riguardano i contenuti – dal rifiuto di abusi e violenze della polizia alla richiesta di libere elezioni, libertà  di comunicare, di riunirsi e di associarsi – ma soprattutto le tattiche adottate nel corso delle mobilitazioni. Sul piano organizzativo, gli stessi gruppi politici di opposizione si sono trovati scavalcati dall’onda giovanile cresciuta su Internet. Il lascito delle rivolte arabe costituisce secondo Vaccaro una «novità  metodologica» di estremo impatto collettivo: la valenza orizzontale delle forme organizzative, meglio autorganizzate che si offrono nei luoghi della rivolta. A dimostrazione del fatto che l’organizzazione e il coordinamento possono realizzarsi anche senza l’intermediazione di strutture di avanguardia. Di più, accomunando le banlieues e le piazze arabe, i riots di Londra, il movimento degli indignados e Occupy Wall Street, Vaccaro individua nella rivolta la capacità  di «interrompere un immaginario frocluso nel recinto pastorale-hobbesiano dello stato democratico quale stadio invalicabile del genere umano». Un addensamento policentrico e carsico della rivolta che fa da contrappunto a «una forma-capitale potentemente capace di fare a meno dello stato democratico territorializzato».
Lo spettro dell’ordine mondiale
L’invito è quello di «abbandonare il regime biopolitico della post-democrazia per inoltrarci lungo il sentiero arduo e difficile che rintracci l’altrimenti tra le pieghe neglette di frammenti di singolarità  collettive, in parte già  oltre e fuori del perimetro democratico». Per quanto suggestiva, questa interpretazione sembra ignorare quanto già  esplicitato: sono gli ideali di libertà  e democrazia, la richiesta di diritti civili e politici, prima ancora delle rivendicazioni economiche e sociali, ad essere alla base dell’impegno profuso dalla gioventù egiziana, che chiedeva le dimissioni di un dittatore e nuove elezioni. Obiettivi concreti, avversari ben precisi. A differenza di Indignados e Ows, incapaci a declinare la critica al modello economico dominante in obiettivi e traguardi precisi. Da questa differenza sull’opposizione sociale nelle dittature e nelle democrazie potrebbe e dovrebbe partire una riflessione sull’efficacia delle tecnologie di rete, oltre che sulla loro capacità  di modificare (e in che direzione) i logori processi della democrazia rappresentativa.
Un tentativo intrapreso da Luca Taddio in Global revolution (Mimesis, pp. 50, euro 3,90). Ruotando intorno all’antitesi globale-locale ed alla necessità  di praticare democrazia diretta con una rappresentanza politica ridotta al minimo, Taddio specula su nuove tecnologie e società  della conoscenza, fino a configurare un futuribile nuovo ordine. Stati Uniti del mondo come federazione di libere città  autonome, la rivoluzione tecnologica applicata all’uomo fino a una completa mutazione antropologica nel rapporto tra uomo e macchina, dove sarà  necessario riconoscere diritti anche a forme di intelligenza artificiale e pianificare e controllare le nascite perché «siamo in troppi». L’eccessivo sapore platonico di quello che appare come un progetto neo-illuminista, condiziona eccessivamente questo pamphlet, che pure prendeva le mosse da considerazioni condivisibili sull’irreversibile crisi delle attuali forme e istituzioni politiche. Un tema di estrema attualità , che dovrebbe essere prioritario per la sinistra politica e culturale, visto l’enorme lavoro da fare.


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