“Mi sono chiesto dove avevo già  visto una come Lisbeth Salander…”

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Non ricordo bene quando l’ho letto – anni fa – ma ricordo bene la sensazione di scoperta assoluta e felice: questa scrive da dio, pensai. Il risvolto di copertina diceva che era nata nel 1967, a Francoforte, e poi chiudeva con una frase che non potevi non notare: “Con le prime venti pagine del suo prossimo libro, non ancora terminato, ha vinto il prestigioso Premio Ingeborg Bachmann.” Boom! Sovente, dietro a frasi del genere, c’è giusto qualcuno del marketing che quel giorno aveva voglia di strafare. Ma in quel caso bisognava ammettere che poi uno apriva il libro e quello che vi trovava era singolare, potente e, in un modo tutto suo, molto bello.
Era il tipo di libro che io non scriverei mai. Ad esempio – se vogliamo finalmente parlare un po’ di tecnica – era tutto al presente. Io ho dei problemi, col presente: per un verso mi sembra troppo freddo, per un altro troppo aggressivo. Alla fine il risultato è portare il lettore sull’orlo di quel che si racconta, senza neanche dargli la distanza clemente dell’imperfetto: è come costringere uno a mangiare con la faccia schiacciata sul piatto. Forse mi innervosisce un po’ anche quella freddezza che ne deriva: mi sembra sempre un po’ falsa. C’è, dietro, l’idea che nel mettere in prima fila le cose automaticamente l’autore scivoli indietro, e il contenuto di verità  ne guadagni. Tipico ragionamento che mi innervosisce.
Un’altra cosa che faceva quel libro era convocare nel racconto migliaia di oggetti. Voglio dire che se in un libro un personaggio entra in bagno, poi sta allo scrittore decidere quante cose di quel bagno convocare sulla pagina. Magari ne basta una: un bagno bianco. Magari ti piace invitarne un altro paio: un bagno bianco piastrellato con una ventola che girando fa rumore. In quel libro si convocava tutto. A un certo punto la protagonista entra in una stanza e ci trova un gran casino: come si vede basterebbe una parola (casino), ma ecco cosa scriveva quella tedesca. “Come una fitta coltre di nuvole, la polvere si snoda lungo i battiscopa fino al telaio di un letto d’ottone su quale giacciono spessi piumini, vestiti buttati a casaccio, libri, un vassoio con tazze da té, tubetti e bottiglie, scatole accartocciate di caramelle alla menta, batterie, un walkman, cassette, una confezione di preservativi. Un cavalletto per la pittura su seta macchiato e ripiegato, una custodia floscia per chitarra, spartiti, due posacenere pieni, diversi cacciavite. Un vaso rovesciato di fiori finti, una pietra pomice per eliminare la callosità  sui talloni, mollette per la biancheria, forcine, viti, fermagli per capelli, una carta telefonica graffiata e unghie finte, attorniate da uno strato di granelli di sabbia e di briciole di pane.” Applausi. Cioè, non è il modo in cui viene da scrivere a me, ma c’è qualcosa di mirabile, di non inutile – una certa chiara bellezza.
La cosa poi incredibile era che, con queste premesse, e tutti quegli oggetti intorno, e ogni gesto meticolosamente censito nei suoi singoli passaggi, il libro non risultava, alla fine, minimamente palloso: anzi, in un certo senso era un thriller. Diciamo un thriller molto, molto raffinato, ma comunque un libro con suspense e scene d’azione: anni dopo, leggendo Stieg Larsson (con lo stesso godutissimo disgusto di me con cui, saltuariamente, mangio il Pied du porc panè), mi sono ritrovato a chiedermi dove diavolo avevo già  visto un personaggio tipo Lisbeth Salander. Nel libro della Parei, ecco dove l’avevo già  visto, nella protagonista del libro della Parei. Per dire che non è una storia di impalpabili sentimenti o di micro fenomenologie snob: gente che fugge, coltelli che volano, e arti marziali.
Insomma, alla fine pensai: che talento, accidenti. C’era da scommettere che quella lì ce la saremo ritrovata per anni a brillare nel panorama un po’ anemico della letteratura europea. Mentre scrivo queste righe, invece, devo registrare il fatto che è abbastanza sparita nel nulla. Non lo dico con soddisfazione, lo dico con sgomento. In italiano, di suo, non si è più visto niente. Ho scoperto che almeno un altro libro l’ha scritto, ma evidentemente a nessuno in Italia sarà  sembrato memorabile. Mi sono incaponito e sono andato a cercarla in rete. Me la son trovata, apparentemente felice, su un furgoncino in viaggio per la Nuova Zelanda, scrivendo poi le sue note di viaggio in un suo blog. Tutto bene, per carità , ma certo è un po’ come se fra qualche anno mi ritrovassi la Pellegrini che fa l’animatrice in un Acquafan. 
Poi magari tra qualche anno Irka Parei se ne esce con un capolavoro, chi lo sa. Ma intanto io ne approfitto per buttare lì una cosa su cui prima o poi tornerò: posso sbagliarmi, ma oggi chi ha molto talento per scrivere un libro ne ha anche abbastanza per capire che non ne vale più tanto la pena. Cioè, lo puoi anche fare, ma se ne accorgono in pochi, nessuno ha voglia di parlarne, il talento è ritenuto un’ineleganza, i romanzi un genere periferico. La corrente del fiume trascina altrove, e molti ne deducono con tranquillità  la verità  indiscutibile che è meglio essere vivi che bravi. Dopo tutto, se davvero hai un talento bestiale per la scrittura, di sicuro sei sveglio abbastanza per fare bene un sacco di altre cose. Facilmente ce ne sono alcune in cui più facilmente troverai la sensazione di esistere veramente, di essere ufficialmente vivo. Lo so, detta così suona piuttosto antipatica: ma invece è una faccenda interessante, tutt’altro che malinconica. Ne riparleremo, promesso (e fatemi il santo piacere di non buttare il vostro tempo a pensare che sto parlando di me. Grazie).


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