PIACERE, GRAMSCI: IL PENSATORE PIà™ RISTUDIATO DELL’ANNO

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Tutti pazzi per Gramsci, e un giorno capiremo perché. Sarà  uno storico della cultura a spiegarci per quale ragione nell’anno 2012 – dopo una protratta stagione di sostanziale distrazione – la sua vicenda ridiventi preda dell’eccitazione dei gramscisti italiani. Rimane il fatto che, quando a New York era “the great Gramsci”, come Gatsby o Luis Amstrong, ovvero il marxista buono da presentare a mammà , nella comunità  intellettuale italiana prevalevano noia, ribrezzo o intento strumentale, ossia si cercava di adattare l’autore dei
Quaderniall’evoluzione politica del principale partito della sinistra italiana. Oggi Gramsci ridiventa un classico, e la cosa potrebbe avere i suoi vantaggi. Purché non si ricada nel filone fantabiografico che di volta in volta ne ha fatto un “suicida”, un “convertito” e da ultimo un “ravveduto” al cospetto del tiranno.
Non è certo sospettabile di questo spirito creativo l’ampia monografia di Giuseppe Vacca, che si fonda sulla vastissima mole di materiali gramsciani conservati nell’istituto da lui presieduto (Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, Einaudi, pagg. 368, euro 33). E a parte qualche sciatteria, meticolosamente rimproverata a Vacca da Alias, il supplemento del Manifesto (date che non coincidono, biografie sbagliate come quelle di Mario Gramsci), e tolti alcuni giudizi sommari – forse riconducibili all’indole dell’autore – il libro di Vacca squaderna una quantità  sterminata di documenti intorno a uno dei nodi essenziali di quella storia, ossia il rapporto tra Gramsci e Togliatti negli anni della prigionia. Sintetizzando: il primo a sospettare del tradimento di Togliatti fu proprio Gramsci, che aveva dissentito e continuava a dissentire da alcuni passaggi essenziali delle scelte di Mosca e della linea del
Pcd’I. Al suo malessere contribuì non poco la “famigerata” lettera di Ruggero Grieco, tra i massimi dirigenti comunisti, che nel 1928 gli scrisse in galera alludendo alla trattativa in corso tra Unione Sovietica e governo italiano per il rilascio del prigioniero. Una “strana” missiva che certo non alleggeriva la posizione di Gramsci. Si trattò di un “disegno criminoso” teso a ostacolarne la liberazione o un atto di scellerata superficialità  da parte del vertice del Pcd’I? Gramsci non aveva alcun dubbio sulla prima ipotesi, e nel decennio successivo avrebbe lungamente inseguito il progetto – una volta libero – di un’inchiesta sul comportamento del partito nei suoi riguardi. E fu a proposito di quella lettera che si sarebbe consumato il litigio più aspro tra l’eroica Tatiana Schucht e Piero Sraffa, l’economista di Cambridge legato organicamente al Pci.
Ma la ricostruzione proposta da Vacca tende in sostanza ad assolvere Togliatti. O, meglio, se non ad assolverlo del tutto, ad escludere qualsiasi disegno criminoso: secondo lo studioso, la lettera di Grieco certo fu “un’ingiustificabile incongruenza” ma non ebbe le conseguenze catastrofiche sospettate dal prigioniero. Fino al 1932 il Pci fece il possibile per liberare Gramsci per via diplomatica – questo sostiene Vacca – e non fu certo quella infelicissima lettera a mandare a monte l’accordo, ma la scarsa convinzione di Stalin, che non aveva alcun interesse a mettere in libertà  un cervello eretico. Al contrario, il capo del Cremlino preferiva avere come interlocutore Togliatti, di cui ebbe modo di apprezzare flessibilità  e zelo sia nell’ottobre del 1926 sia dopo la svolta del 1929: una duttilità  non riscontrabile nel comunista sardo. Ma Togliatti non aveva anche lui interesse a tenere Gramsci in galera? Non si può escluderlo, risponde prudente Vacca, ma anche qui suggerisce una lettura giustificazionista. «Togliatti non ebbe bisogno di sabotare tentativi di liberazione che in realtà  non furono compiuti seriamente dall’unico attore che poteva intraprenderli, vale a dire il governo sovietico ». Insomma, secondo Vacca, il Migliore non ci mise niente di suo, anche perché altri avevano già  provveduto.
Di diversa intonazione il saggio di Luciano Canfora, insigne filologo con antica passione per il prigioniero sardo (Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno editrice, pagg. 304, euro 14). Anche Canfora allunga la lente sulla lettera di Grieco, ma sceglie di indugiare sulla contorta vicenda della sua edizione, lusta meggiando nel lungo dopoguerra i silenzi, le censure, le reticenze di Togliatti e del Pci (a farne le spese è anche Paolo Spriano). Brillante e sapido nello stile, ormai esperto nel genere del “giallo filologico”, non è la prima volta che Canfora porta nel suo laboratorio la missiva di Grieco: lo fece diversi anni fa per sostenerne la tesi del falso (una manipolazione dell’Ovra). Oggi accantona quella interpretazione, anche se non del tutto sopita, e con altrettanta convinzione preferisce concentrarsi sulle molte ombre e ambiguità  di Grieco. A ragione Giorgio Fabre ha rilevato che, se Canfora non può arrivare a dimostrare che sia stato una spia del fascismo – non ci sono le prove – , i lettori del suo saggio sono portati a pensarlo, o comunque a vederne le tante oscurità  sullo sfondo della dittatura. Non a caso la sua figura viene accostata a quella di Ezio Taddei, un anarchico italiano dai trascorsi malavitosi, detenuto nelle carceri fasciste anche per reati comuni, autore di veementi articoli tesi a screditare Gramsci. Dopo la guerra la figura di Taddei sarà  recuperata dal Pci, tanto da intercettarla il 28 aprile del 1950 al fianco di Togliatti e della più alta intellighenzia comunista. In quale occasione? All’inaugurazione della Fondazione Gramsci. La storia, anzi la Storia, può essere molto fantasiosa. Canfora è molto abile nel coglierne i continui paradossi.


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