Canoni femministi radicati nel tempo

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Entrambe erano di famiglia ebrea: di fede e pratica ortodossa, lo dice già  il suo nome, quella di Shulamith Bath Shmuel Ben Ari Feuerstein, nata nel 1945 in Canada, tappa migratoria verso gli Stati Uniti dove i genitori si sarebbero presto trasferiti, americanizzando il loro cognome in Firestone; laica quella di Eva Figes, nata Unger nel 1932 a Berlino, da dove dovranno fuggire nel 1939 a causa dell’ascesa del nazismo, dopo che il padre era stato brevemente internato a Dachau in occasione della Notte dei Cristalli, passando così da una prospera integrazione alla sradicata miseria di Londra durante e subito dopo la guerra.
Alle basi del patriarcato
Entrambe sono diventate famose pubblicando un libro di successo internazionale nel 1970 – lo stesso anno in cui uscirono anche La politica del sesso di Kate Millett e L’eunuco femmina di Germaine Greer; e proprio insieme a questi Il posto della donna nella società  degli uomini di Figes e La dialettica dei sessi di Firestone sarebbero diventati un piccolo canone del femminismo radicale anglofono di seconda ondata. Entrambe sono morte lo scorso 28 agosto: l’una ancora una figura di spicco nel mondo dell’intellettualità  britannica, l’altra chiusa da anni in una solitudine che per alcuni giorni ne ha lasciato il corpo abbandonato nell’appartamento dell’East Village newyorchese.
La morte è cesura e perdita, ma anche occasione di ripercorrere atmosfere, processi, riflessioni che hanno segnato i decenni passati – per capire quanto davvero ci sta ormai alle spalle e quanto invece resta, trasformato ma ancora vitale; e in tal senso i libri di Figes e Firestone sono un utile esercizio di rilettura.
Il primo cercava di rintracciare le basi storiche del patriarcato per mostrare come le definizioni di mascolinità  e femminilità  non si fondino su dati naturali e dunque indiscutibili e immutabili, ma su processi di socializzazione normati sostanzialmente da uomini; e dunque finiva per essere soprattutto analisi e contestazione del pensiero maschile, dalla Bibbia a Freud (passando, tra gli altri, per Sant’Agostino, Milton e Rousseau), dedicando però un capitolo a quella che oggi chiameremmo misoginia femminile, per guardare all’atteggiamento ambivalente se non ostile che nell’Ottocento hanno avuto verso le rivendicazioni femminili alcune donne di successo e potere – esempio fulgido la regina Vittoria. A quasi un secolo di distanza, Figes non vedeva grandi conquiste, e piuttosto sottolineava il persistere di «atteggiamenti patriarcali» (Patriarchal Attitudes era il titolo originale del libro) restrittivi per la libertà  delle donne, identificando soprattutto nel matrimonio una istituzione anacronistica e dannosa, e mettendo un forte accento sugli aspetti economici della subordinazione femminile, nel legame tra rimodellarsi delle sue forme e cambiamenti del sistema produttivo.
Le cause dell’oppressione
Per molti aspetti un libro datato, ma non solo in senso negativo; in quanto riconoscibilmente radicato nel tempo della sua scrittura, nell’humus di un nuovo inizio che forse richiedeva la sistematizzazione e lo sguardo storicizzanti che lo caratterizzano, Il posto della donna rimane importante per il ruolo che ha avuto nella formazione di almeno un paio di generazioni di femministe, non solo nel mondo anglofono, inserendosi tra i primi testi che ipotizzano una distinzione tra sesso e genere, con la rivendicazione di una primazia della significazione culturale sul dato puramente biologico.
Anche Firestone voleva identificare le cause dell’oppressione femminile, e per questo anche lei rilegge alle radici la storia, con una serena impudenza che non esita a sovvertire il pensiero dei «grandi padri» della cultura occidentale e visionariamente disegna un futuro in cui la tecnologia spazzerà  via il dato biologico su cui tale oppressione si è installata.
Se Marx invocava il controllo dei mezzi di produzione per scalzare il dominio della borghesia sulla classe lavoratrice, lei chiede per le donne il pieno controllo sulla riproduzione, su quella funzione procreativa che col suo corollario di cura le ha tenute inchiodate a una condizione di secondarietà . Sostiene perciò che oltre a liberalizzare aborto e contraccezione, bisogna togliere spazio al sesso riproduttivo e alla «barbarie» della gravidanza per adottare mezzi quali la fertilizzazione in vitro e la gestazione in ventri artificiali; e la socializzazione familiare va eliminata a favore di una collettivizzazione dell’allevamento dei figli, sostituendo la famiglia nucleare con più ampie comunità  di condivisione responsabile. Solo così si potrà  raggiungere «non solo l’eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi», finché «le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale», e il binarismo costrittivo tra etero e omosessualità  potrà  far luogo a una libera pansessualità .
Accantonando la vocazione di pittrice dopo gli studi alla School of the Art Institute di Chicago, prima di pubblicare La dialettica dei sessi Firestone aveva vissuto alcuni anni di appassionato attivismo politico, partecipando nel 1967 alla National Conference for New Politics tenutasi in quella città . Lì aveva incontrato il paternalismo di una dirigenza tutta maschile che, di fronte alla richiesta sua e di molte altre donne impegnate in quello sforzo di rinnovamento perché si discutesse una loro mozione, aveva risposto con sorridente noncuranza: «Calma, ragazzine, abbiamo cose ben più importanti di cui occuparci che non i problemi delle donne»; un’esperienza che la distaccò dalla «nuova sinistra» per scegliere, trasferendosi a New York, il lavoro in gruppi radicali femministi – in particolare le Redstockings, di cui fu co-fondatrice e fulcro – curandone le pubblicazioni e sviluppando le teorie poi sistematizzate nel libro che le donò d’improvviso la notorietà .
Un percorso doloroso
Ma a quel punto lei – forse anche sopraffatta proprio dall’attenzione e dalle polemiche suscitate – stava già  prendendo un’altra strada, ritraendosi del tutto dalla politica e isolandosi sempre di più per tornare a dedicarsi alla pittura. Alla fine degli anni Ottanta soffrì di seri disturbi mentali, diagnosticati come schizofrenia, e venne ripetutamente ospitalizzata – un percorso doloroso che racconta nel suo unico altro libro, Airless Spaces, pubblicato nel 1998; nel 1997 era tornata brevemente alla ribalta quando uscì il film di Elizabeth Subrin Shulie, fedele remake di un documentario di cui era stata protagonista trent’anni prima, girato da giovani cineasti alla Northwestern University. Poi di nuovo il silenzio.
La condanna di Israele
Eva Figes ha invece continuato a scrivere, soprattutto racconti e romanzi di taglio sperimentale, frammentari nella struttura e però lucidamente e liricamente precisi nelle scelte linguistiche, in cui la credibilità  della voce narrante è spesso inficiata da una condizione di anormalità  o menomazione, fisica o psichica. Il suo libro più bello è forse Light (1983), che ricostruisce un giorno della vita del pittore impressionista Claude Monet, in qualche modo riprendendone la tecnica; il più controverso è certamente Journey to Nowhere (2008), sulle vicende di Edith, cameriera della famiglia Unger in Germania, rimasta a Berlino quando loro fuggirono, poi emigrata in Israele e infine tornata a vivere con loro dopo quella esperienza per lei del tutto negativa. Impietoso e amaro nel descrivere la vita familiare – soprattutto critico verso il comportamento della madre – il libro è ancor più implacabile nella condanna di Israele, la cui creazione Figes riteneva «un errore catastrofico», il prodotto di interessi politici soprattutto statunitensi e di una forma coperta di antisemitismo. Non ne salva nulla, né la spinta idealista dei primi emigrati negli anni Trenta, quando lo stato ancora non esisteva, né gli inizi innervati di sogni comunitari ma già  percorsi da fratture interne, che per Edith significano essere odiata in quanto tedesca e sentirsi più che mai in esilio.
Ora forse, sulla spinta della sua morte, qualcuno deciderà  infine di tradurli e pubblicarli in Italia, e forse verrà  riedito Il posto della donna; e magari tornerà  in libreria anche il più eversivo Dialettica del sesso di Firestone, insieme inquietante e profetico nell’appello al dominio della tecnologia in campo riproduttivo e nel rifiuto di ogni differenziazione di sesso e genere.

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SCAFFALE

Due eredità  a confronto

Anche nel mondo anglosassone la morte di due figure importanti per il femminismo degli anni ’70, come sono state Eva Figes e Shulamith Firestone, ha dato lo spunto per riflessioni e bilanci, soprattutto negli «obituaries» che i giornali hanno dedicato alle autrici, rispettivamente, di «Il posto della donna nella società  degli uomini» e di «La dialettica dei sessi». E se l’eredità  di Firestone è, per Julie Bindel sul «Guardian», «la sfida che ha lanciato alla sinistra rifiutando di accettare che la liberazione delle donne debba essere accantonata fino a dopo la rivoluzione», la rilettura dei testi di Figes si presenta come più articolata, anche perché la sua opera è più ampia e dinamica nel tempo. Non a caso, ancora sul «Guardian», Eva Tucker cita una frase emblematica dell’autrice: «Ci sono persone che affermano di scrivere per la “posterità ” quando i loro libri non vengono letti o capiti da più di poche persone. Ma la posterità  dovrà  e saprà  prendersi cura di sé. Per quanto mi riguarda, io sono perfettamente consapevole del presente, di essere viva qui e ora, di cercare di cogliere l’esistenza, per quanto inadeguatamente».


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