E le tute blu strappano le tessere “Traditi da tutti, anche dalla sinistra”

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ROMA — «Sono uno degli operai addetti allo spegnimento delle celle.
Questo vuol dire che sto fermando la fabbrica che dà  lavoro a me e ai miei compagni. E se rifiuto l’azienda mi licenzia. Potete immaginare come mi sento? A pezzi, tradito, deluso, da tutto e da tutti, ma in testa ai traditori c’è il mio partito, il Pd. Ero un elettore di sinistra, non lo sarò più, la verità  è che la politica ci ha abbandonato, siamo rimasti soli, disperati e incazzati». È nel rumore cupo e sincopato dei tamburi e degli elmetti sbattuti sull’asfalto che Antonio, operaio Alcoa addetto all’ingrato compito di spegnere giorno dopo giorno l’impianto di Portovesme, racconta il suo dramma umano e politico insieme. «Bastardi, ci avete deluso». Sono passati pochi minuti dalla contestazione dura e violenta del corteo a Stefano Fassina, responsabile per il lavoro del Pd, e in tanti, spesso padri e figli insieme, tirano fuori le tessere di partiti e sindacati facendo il gesto di romperle in mille pezzi. Sotto le finestre del ministero dello Sviluppo si consuma un
nuovo strappo: di qua la tragedia del Sulcis Iglesiente, di là  una politica senza risposte. Arrivano da Carbonia, Iglesias, Portoscuso, Sant’Anna Arresi, elmetti e bandane con i Quattro Mori e sul petto la scritta “disposti a tutto”. «Destra, sinistra, sindacato, siete traditori, ad ogni campagna elettorale ci avete chiesto il voto, per poi allearvi con i padroni».
Andrea Grussu ha 33 anni, da 10 lavora nelle “sale di elettrolisi” e sull’Alcoa ha basato tutto il suo progetto di vita. «Ho comprato una casa, devo pagare il mutuo, andate in cassa integrazione ci dicono, con gli incentivi dell’azienda si arriva quasi allo stipendio pieno, ma sono giovane, voglio lavorare, non è dignitoso vivere di sussidi. Che cosa è venuto a fare qui Fassina? A darci la solidarietà  del Pd? E poi? Lo sanno tutti che l’Alcoa è un’azienda produttiva, e invece la faranno chiudere per difendere gli interessi dell’Enel… Tanti di noi si stanno cancellando dal sindacato, gli operai sono diventati apolitici». «Unidos nella lotta — dice lo striscione — Portovesme non si tocca». Già . Perché Portovesme è territorio bruciato, nessuna riconversione è possibile, l’Alcoa ha inquinato tutto, dice amaro Elio Loi, oggi in pensione, «e a lavorare l’alluminio ci si ammala, indagate sui casi di tumore, eppure noi operai siamo così disperati che lottiamo anche per difendere un posto di lavoro pericoloso».
Padri e figli. Antonello Manca nell’impianto ci lavora da 36 anni, dal 1975, e di quell’alluminio «di qualità  che anche la Ferrari ci chiede» va tuttora fiero. «Adesso in fabbrica c’è anche mio figlio, se Alcoa chiude la mia famiglia va in rovina, in Sardegna non c’è nient’altro, emigreranno tutti, ragazzi che speravano di costruirsi un futuro, di potersi sposare… L’ho deciso qui, adesso, a votare non ci vado più, né sinistra né destra, anche i sindacati hanno fatto patti e detto bugie. Guardatevi intorno: la politica ha paura di noi, anche questi tecnici, non cercano voti ma proteggono le loro lobby economiche. Mi vergogno: sono un lavoratore, ho 56 anni, pago le tasse fino all’ultimo euro e mi hanno chiuso qui, tra i blindati e i celerini, come fossi un criminale».
Alla fine della giornata le bandiere dei sindacati non sventolano più. I bastoni servono per battere sui tamburi e i simboli sono stracci arrotolati. Antonello Casula, giovane, bruno e arrabbiato è venuto a Roma insieme alla moglie, Marina Ambus, maestra precaria. Antonello porta sulla maglietta la foto delle loro figlie bambine, Noemi e
Giada. «Voglio far vedere a tutti cosa vuol dire chiudere l’Alcoa, chi affameranno domani se ci tolgono la fabbrica. I partiti? Se ne fregano. Che mangeranno le mie figlie se perdo il lavoro, visto che mia moglie spesso la chiamano soltanto per un giorno di supplenza in un mese intero?».
Sabrina, 37 anni, una laurea in Ingegneria è una delle poche donne impiegate nel colosso di Portovesme. «Mio padre era un operaio dell’Alcoa, è andato in pensione e sono stata assunta, come impiegata. Guadagno poco, ma ho scelto di restare per essere vicina alla famiglia. Anche con la mia laurea però se perdo questo impiego in Sardegna potrò fare poco o nulla. E forse dovrò emigrare, come tanti miei amici». E lo strappo con la politica si fa ancora più duro di sera, quando i delegati sindacali annunciano lo slittamento della chiusura soltanto di poche settimane. Amaro il commento di Marco, che ha gli occhi rossi: «L’Alcoa verrà  dismessa, e a noi resterà  il cadavere del Sulcis, una terra morta, avvelenata, dove non può crescere né nascere più nulla».


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