Nel covo dei miliziani di Bengasi “Con la sharia ricostruiremo la Libia”

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BENGASI. ESE un Rpg o una mitragliatrice pesante sono a disposizione di tutti a Bengasi, il mortaio e il suo corretto utilizzo sono prerogativa di un gruppo paramilitare più o meno addestrato. Proprio come Ansar Al Sharia.
Facciamo un passo indietro, torniamo a sabato sera. Mentre la notte di Bengasi iniziava ad avanzare dal mare e dal deserto, entriamo con una guida nel comando militare di Ansar al Sharia, l’ex caserma blindata di Gheddafi in cui il leader si era fatto costruire una finta tenda beduina in cemento armato. Lui il cemento se lo faceva mettere tutt’intorno, ma anche sulla testa.
I giovani miliziani di guardia sono sconcertati: un occidentale e un libico — chiaramente laico — provano ad entrare nel loro comando. Ci fanno sedere per un’ora su due sedie di plastica nel cortile pieno come un uomo di “tecniche” attrezzate con kalashnikov e mitragliatrici pesanti. «C’è una troupe francese già  dentro, vediamo se riusciamo a farvi parlare con i capi», dice un giovane barbuto che segue la serie A, tifa Inter e quasi compatisce un italiano che non sa nulla di calcio. Intanto iniziamo a parlare con loro: «Siamo libici, siamo tutti libici», dicono smentendo che ci siano Taliban stranieri, « i nostri capi ci hanno detto che con i giornalisti della carta stampata non dobbiamo parlare, perché voi poi potete scrivere quello che volete e cambiare le nostre parole, mentre la tv registra. Chi siamo? Siamo combattenti della rivoluzione che ha cacciato Gheddafi e adesso vogliamo costruire il nostro paese».
Ma il popolo libico non vi segue, non vi ha creduto, il 7 luglio i partiti politici sostenuti da voi quasi non sono stati votati. «Noi stiamo in Libia e ci saremo, e tra l’altro noi crediamo che le leggi della politica, le leggi di questi parlamenti non servono: la legge c’è già  e si chiama sharia, la legge islamica».
Ecco la conferma di quello che Ansar al Sharia aveva già  detto a giugno e luglio, «la democrazia non serve, la legge è quella della sharia». E questo è anche un primo elemento per capire come si è arrivati all’attacco al consolato: Ansar ha iniziato a presentarsi in forze a Bengasi all’inizio di giugno, quando con i loro pick-up armati hanno fatto caroselli proprio nel centro in piazza della Rivoluzione. Da allora hanno deciso di far chiudere i parrucchieri per signora e soprattutto hanno iniziato a impossessarsi poco alla volta di uno spicchio di città . Bengasi è come un grande ventaglio adagiato in
riva al Mediterraneo: loro se ne sono presi una fetta centrale, in cui ci sono caserme, uffici politici e anche l’ospedale Al Jalaa, il più importante della città , presidiato dentro e fuori dai suoi miliziani. Poi sono iniziati gli attentati: devastati i santuari sufi, una setta musulmana considerata eretica. Bombe alla Croce rossa, al consolato Usa, contro l’ambasciatore inglese.
Jalal el Ghallal, ex portavoce del Cnt, rimasto in politica ma ora fuori dal Cnt, spiega quello che tutti vedono: «In Libia ci sono ancora 300 milizie o brigate, più o meno grandi e potenti. Il governo è debole, ha appaltato la sicurezza del paese a brigate che dipendono dagli Interni o dalla Difesa. Molte sono state infiltrate dagli stessi salafiti, anche da gente vicina ad Al Qaeda, per cui il livello di insicurezza e di inaffidabilità  è altissimo». Ma Jalal, uomo d’affari figlio di una ricca famiglia che in Libia fra l’altro importa Benetton, aggiunge un particolare di cui molti parlano: «E’ molto probabile che l’attacco al consolato sia stato organizzato da gente di Ansar al Sharia quando hanno visto che partiva il corteo. Ma io vedo un collegamento tra gli integralisti e i loro ex nemici gheddafiani, che dall’Egitto stanno arrivando con borse cariche di migliaia di dollari per provare a destabilizzare la Libia del dopo elezioni». Molti citano Ahmed Gaddafeddam, l’uomo che per conto del colonnello teneva i contatti col regime di Mubarak: è rifugiato al Cairo, ha conti milionari a disposizione, ha il knowhow del perfetto trafficante e destabilizzatore gheddafiano.
La manovra è chiara: il voto ha detto che non c’è spazio per gheddafiani e integralisti nella Libia che vuole essere democratica, e che al 90 per cento piange la morte del povero ambasciatore Stevens. E allora meglio far saltare tutto, con le bombe.
Il gioco è ben chiaro al presidente del parlamento libico Mohammed al Megaryef, di fatto il capo dello stato: «L’attacco al consolato è un punto di svolta, oggi nel mirino ci sono gli americani, domani ci saranno i libici. Sembra esserci Ansar al-Shariah dietro l’attacco, ma ci sono anche elementi stranieri, abbiamo fatto 50 arresti e perseguiremo chi ha voluto quell’assalto». Megaryef aggiunge un elemento importante: «Per il momento è meglio che gli americani stiano fuori fino a che noi non abbiamo fatto quello che dobbiamo fare». Come dire “aspettate a bombardare”, un attacco militare o una squadra dell’Fbi sul campo sarebbero una ulteriore delegittimazione del potere libico, che solo da una settimana ha un nuovo premier, Abu Shagur. I 50 arresti, l’inchiesta di una polizia debole e infiltrata dagli integralisti non hanno grande credibilità , ma Megaryef spera di evitare che gli americani, con uomini a terra o con un bombardamento dall’alto, rafforzino la campagna elettorale di Barack Obama ma affossino il governo di Tripoli.
«Ma gli americani attaccheranno, faranno di duro presto, e magari aiuteranno proprio l’alleanza gheddafiani-integralisti», dice Jalal. Anche stamane e per tutta la notte i droni dell’Usaf hanno fotografato dall’alto Ansar Al Sharia, magari anche il cortile della caserma di Gheddafi che loro hanno conquistato.


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