IL PUGILE OBAMA

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È stato unanime nei media benpensanti il sospiro di sollievo perché nella rivincita il «nostro campione» si è ripreso, ha reagito, e può sperare di conservare il titolo (cioè la presidenza).
Naturalmente l’uso così insistito della boxe la dice lunga sulla soggiacente idea di politica e dovremo analizzarlo. Ma per ora spremiamo fino all’ultima goccia la metafora sportiva. L’incontro era viziato da un calo delle aspettative: come ha scritto l’inglese Guardian, «Obama non poteva fare peggio che nel primo dibattito e Romney non poteva fare meglio»: in effetti nel primo incontro il presidente era sembrato un pungiball più che un pugile, che si offriva inerte alle sventole dello sfidante: al New York Times era persino venuto il sospetto che in fondo in fondo Obama non volesse essere rieletto, che si fosse stufato di fare il presidente.
I sondaggi avevano dato vincitore Romney al 67 % contro un 25 % per Obama: un Ko. Mentre stavolta il 46 % assegna la vittoria Obama, il 39 a Romney con uno scarto al limite del margine di errore di questi sondaggi (+ o + 3%) e quindi non è molto significativo.
Di Obama è stata apprezzata la reattività  che gli ha fatto contestare la verità  delle affermazioni dello sfidante con alcune battute come quella sulle rispettive pensioni (il patrimonio di Romney è stimato oltre i 200 milioni di dollari). E finalmente Obama ha tirato fuori la storia del 47% di americani che in un incontro privato Romney aveva definito vittimisti e parassitari. Con buon senso tattico, il presidente si è tenuto la battuta per l’ultima ripresa, per il suo ultimo intervento quando l’avversario non poteva più replicare.
Romney è stato più fiacco della prima volta, ma non proprio in balia di Obama: anzi, è stato abbastanza efficace il bilancio negativo che ha tracciato più e più volte del primo mandato di Obama (i milioni di disoccupati, l’aumento dei poveri, la crescita dei tagliandi alimentari (food stamps, la crescita economica che s’indebolisce), il rincaro della benzina alla pompa (argomento cui gli statunitensi sono particolarmente sensibili), con l’inevitabile domanda «Volete altri quattro anni come i quattro anni passati?» Ma l’inconsistenza delle sue ricette è emersa alla luce del sole appena Obama ha smesso di fare lo sparring partner, forzando l’avversario all’errore non voluto.
Di veri passi falsi in realtà  Romney ne ha fatti due: uno è stato la condiscendenza con cui ha parlato delle donne: visto che come governatore del Massachusetts nello staff non aveva collaboratrici ma solo collaboratori, aveva chiesto dossier di candidate e ricevuto «raccoglitori (binders) pieni di donne». Immediatamente è stato creato un account Twitter Romney’s Binder, e si possono già  trovare foto parodistiche nel sito bindersfullofwomen.tumblr.com.
Il secondo errore Romney l’ha commesso sulla Libia, sull’assassinio dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, quando ha accusato Obama di avere indicato la pista terroristica solo 15 giorni dopo la morte, mentre Obama ne aveva parlato il giorno dopo, come ha confermato la stessa moderatrice del dibattito.
Rimane da vedere se questa «rimonta» basterà  a invertire quello che gli anglosassoni chiamano il momentum, cioè la spinta verso l’alto che il primo incontro aveva innescato per Romney. Personalmente resto convinto che l’importanza di questi dibattiti sia sopravvalutata, soprattutto nell’attuale temperie politica che vede gli Usa spaccati in due in modo irrimediabile, e dove quindi rimangono ben pochi indecisi da convincere. La partita si gioca piuttosto sull’astensione nei due campi: su quanti liberals e progressisti non andranno a votare perché delusi da Obama, o quanti Tea Party e e conservatori cristiani si asterranno perché Romney è mormone e voltagabbana e non abbastanza «puro e duro». Perciò l’altra notte Obama sembrava mirare più a rianimare i suoi che a convincere gli indecisi.
Rimane il fatto che un incontro di boxe è teso a mostrare chi ce l’ha più duro, non a comunicare significati, o descrivere una linea politica o delineare un programma di governo. Da Obama non abbiamo sentito nulla su quello che – se vince – farà  nei prossimi quattro anni, come si comporterà  con l’opposizione repubblicana: «ha perso l’occasione d’impegnarsi per una più decisa opposizione, nel secondo mandato, alla vendita libera di armi d’assalto, di presentare una chiara politica sull’immigrazione» (New York Times).
Il messaggio politico di Obama si è ridotto a un classico «sans moi, le déluge», a dire che se vince Romney è la fine della civiltà  negli Usa. Non è del tutto falso, ma questo tipo di messaggio esprime ancora una volta il «maleminorismo» o il «menopeggismo», per cui votiamo per il male minore, per evitare il peggio. Un motivo che ha una sua logica, ma che contrasta con le attese messianiche che avevano preceduto e seguito la sua elezione nel 2008.


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