LA TEMPESTA DI BARACK

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WASHINGTON. NEL cuore fermo di un’America in ginocchio per la paura, Barack Obama prega nei sotterranei della Casa Bianca.
PREGA perché l’uragano Sandy non spazzi via anche il proprio futuro. Era tornato ieri mattina, a bordo di quel super jumbo, il 747 chiamato “Air Force One” soltanto quando trasporta il Presidente, nello spazio aereo sopra la capitale già  chiuso ai voli commerciali, ordinando ai piloti di ignorare il divieto e atterrare nella base militare di Andrews. Si era lasciato dietro giornalisti, portaborse, membri dello staff bloccati in Florida dagli equipaggi degli aerei charter e dai voli di linea che avevano saggiamente rifiutato di sfidare i venti dell’uragano. Lo abbiamo visto tornare al suo posto di lavoro, nella Casa Bianca, all’alba, avvolto nel suo lungo impermeabile blu di nailon da impiegato con quell’andatura da compasso, sulle gambe rigide, quando i primi segnali della tempesta cominciavano ad avvertirsi su tutta la costa atlantica, dalla Virginia, dove è la base di Andrews, fino a Boston.
Nessun cenno di saluto per le solite telecamere in servizio permanente sul prato posteriore, dove il vecchio elicottero bianco e blu dei Marines — il Marine One — che fa il servizio navetta dalla pista militare alla Casa Bianca, lo aveva depositato a fatica. Poche ore prima, a Orlando, in Florida, dove avrebbe dovuto tenere l’ultimo comizio accanto a Bill Clinton in quello stato già  fatale per le speranze di Gore contro Bush nel 2000, era entrato in un di quegli uffici caotici e frementi nei quali lavorano i giovani volontari aggrappati ai telefoni. «Ora tocca a voi, mi dispiace, vi devo lasciare soli perché io devo tornare a casa e guidare la risposta al disastro». Per ricompensarli, aveva offerto — pagando di tasca propria, come le legge impone, non con i fondi elettorali — quaranta pizze. Pizza a colazione.
David Plouffe, la sua principale “baby sitter” elettorale, aveva spiegato ai cinque, privilegiati reporter ospitati sull’Air Force One e imbottiti di dramamina per non vomitare nella turbolenza delle correnti aeree di Sandy, che Obama era certamente in ansia per gli effetti politici di questa catastrofe venuta dall’Atlantico. Che tremava al pensiero del colpo all’economia americana già  vacillante che una settimana di prevista interruzione delle forniture elettriche, di rovine, di emergenze avrebbe inferto a ormai sei giorni dal voto, e non avrebbe potuto mostrarsi nel sole della Florida — ieri splendente — a farsi applaudire mentre il Nord Est, e le grandi città , da Washington, a New York a Boston, barcollavano sotto le spallate del più furioso uragano mai abbattuto sulla regione. Ma aveva anche mormorato che il Presidente voleva essere con la famiglia, con Michelle e le ragazzine, Malia e Sasha, costrette in casa dalla chiusura di tutte le scuole, affrante dalla noia e dall’inquietudine.
Nella “Situation Room”, la sala comando a prova di bomba scavata sotto la Casa Bianca, aveva preparato, rientrando dal viaggio di rapida andata e ritorno, le poche parole che avrebbe poi recitato per le televisioni alla una del pomeriggio, prima che l’inevitabile blackout spegnesse milioni di schermi. «Tutto quello che vi serve, avrete», rassicurava i governatori degli stati della Virginia, del Maryland, della Pennsylvania, del Delaware, di New York, del Massachusetts e anche dell’Ohio, pur lontano dall’oceano ma destinato a subire i colpi di coda di Sandy. Quindi soccorsi, mezzi, sgravi fiscali, stato d’emergenza: «Non temo per il voto, ora la priorità  è assicurarci
che stiamo salvando delle vite ».
Nel briefing dentro la “Situation Room” alle dieci di ieri, c’erano tutti i responsabili dei servizi civili di emergenza, dalla Fema, la protezione civile, alla Croce Rossa, all’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, ma non solo. Attorno al tavolo, c’erano stellette di generali convocati per sapere quali rischi all’ordine pubblico i possibili disastri avrebbero provocato, quali tentazioni il disordine avrebbe solleticato nel terrorismo che non dorme mai e quale ruolo le Forze Armate, la Marina, l’Aviazione, la Guardia Costiera avrebbero potuto svolgere, al fianco delle Guardie Nazionali, le truppe territoriali delle quali ogni singolo stato dispone e che saranno mandate in campo subito, per evitare la scene selvagge di violenza e di saccheggio viste a New Orleans dopo la mazzata di Katrina. L’incubo di quel presidente Bush che svolazzava sullo stesso Air Force One sopra la città  sommersa e abbandonata a se stessa resterà  per sempre nella memoria della nazione e nella coscienza dei futuri presidenti.
Ma dopo avere organizzato la risposta, cercato di rassicurare la gente e di mostrarsi “il nostromo al timone” agli elettori, anche Obama, come tutti i residenti della immensa regione sulla quale stava per abbattersi il “Frankenstorm”, la tempesta mostro prodotta da due bufere fuse insieme, venute dalla terra e dal mare, è stato costretto a fare come ogni altra persona. “L’uomo più potente della Terra”, come la retorica lo definisce, ha trascorso il pomeriggio prima dell’ora X, le otto della sera, non potendo fare altro che stare davanti agli schermi delle tv e ai computer per seguire il viaggio di Sandy, i suoi scarti e zigzag dell’ultim’ora, quelli che possono fare la differenza fra un disastro epico e un temporale. L’impotenza del superpotente di fronte allo sbarco di un nemico come Sandy era totale. Non aveva missili, droni, caccia bombardieri, forze speciali che potessero rallentare per un minuto, o deviare per un chilometro, l’avanzata dell’uragano. Nulla che potesse fermare il vento che qui a Washington, come ovunque sul fronte, si sentiva gonfiare, ora dopo ora.
«Sarà  enorme, sarà  possente» diceva nell’ultimo messaggio prima di rifugiarsi, con la moglie e le figlie, sotto il tetto della Casa Bianca ad aspettare. «Ascoltate le autorità , seguite le loro indicazioni, non sfidate Sandy». Già  quasi un milione di persone hanno seguito il sentiero della paura e della prudenza, scappando verso l’Ovest, il più lontano possibile da questa gigantessa crudele che coprirà  con il proprio strascico violento ottocento chilometri di fronte. Poi, dopo una nuova ispezione sul retro della Casa Bianca, l’impermeabilino ormai punteggiato di gocce grosse sulle spalle, per assicurarsi che anche i suoi uomini del Servizio Segreto fossero ben al riparo da venti previsti fino a 160 all’ora (e i maliziosi dicono per fumarsi una di quelle sigarette a scrocco che ha giurato alla moglie di avere abbandonato), Obama si è rifugiato sotto il tetto. Impotente, a guardare i bollettini del servizio meterologico e le cifre tempestose dei sondaggi elettorali.


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