Wikileaks vende i file segreti Anonymous contro Assange

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Dopo anni di felice collaborazione, Anonymous, il collettivo di cyber-attivisti, ha sancito ieri online il suo divorzio con WikiLeaks. Con una lettera aperta e un tweet che recita «Cari amici di WIkiLeaks avete perso i vostri ultimi alleati. Spero moriate in un incendio», gli hacker mascherati hanno salutato l’organizzazione che nel 2010 ha fatto tremare i governi di tutto il mondo. Fossero marito e moglie si parlerebbe di inconciliabili divergenze caratteriali, ma trattandosi delle due organizzazioni auto-proclamatesi paladine della trasparenza dell’informazione, le cose si complicano.
Motivo della rottura, la decisione di WikiLeaks — progetto «senza scopo di lucro», come si legge ancora su Wikipedia — di mettere a pagamento i file rilasciati mercoledì e contenenti migliaia di informazioni segrete sulle elezioni presidenziali americane. Fino alla denuncia di Anonymous, che li ha costretti a fare retromarcia, cliccando sui «leaks», gli utenti venivano trasportati in una pagina contenente la richiesta di pagamento (dai 15 ai 100 dollari) e un video di promozione accompagnato dallo slogan «Per queste elezioni vota con il tuo portafoglio: vota WikiLeaks». Due alternative al pagamento c’erano: la disabilitazione del linguaggio Javascript e la condivisione del filmato — quindi della campagna di finanziamento — sui social media. Peccato che le possibilità  non fossero menzionate sulla pagina del video.
In pochi hanno creduto alle buone intenzioni dell’organizzazione, a partire da Anonymous che nella lettera pubblica, subito diffusa online, ha scritto: «La missione di WikiLeaks era quella di offrire al pubblico informazioni provenienti dai governi e dalle industrie che altrimenti sarebbero rimaste segrete. Informazioni che il pubblico ha diritto di sapere. Ma tutto ciò è stato spinto sempre di più in secondo piano, e adesso sentiamo solo parlare della cena di Julian Assange e Lady Gaga». Il colpevole dell’operazione sarebbe dunque lui: il leader rifugiato da giugno nell’ambasciata londinese dell’Ecuador per evitare l’estradizione in Svezia, dove lo aspetta un processo per violenza sessuale (con possibile trasferimento nei tribunali americani con l’accusa di spionaggio).
Da tempo era chiaro che la situazione giudiziaria di Assange e il blocco ai finanziamenti imposto da Mastercard e Visa avrebbe compromesso l’attività  di WikiLeaks. Resta tuttavia uno spiacevole paradosso che un’associazione nata con l’obiettivo di trasparenza dell’informazione si ritrovi non solo a «vendere» i file ma anche a gestire in maniera opaca i finanziamenti (Anonymous ha denunciato anche l’utilizzo che Assange ha fatto dei soldi donati dai finanziatori).
Con un pizzico di pragmatismo si potrebbe supporre che, sebbene per motivazioni diverse, WikiLeaks è soggetta non meno dei colossi editoriali alla crisi economica. E — come ha scritto ieri il sito di tecnologia «TechCrunch» — non riuscendo a fare cassa con il merchandising di magliette e borse, fa quello che qualsiasi giornale farebbe: chiedere denaro in cambio di approfondimenti. Più che la maledizione di Anonymous, è dunque il tradimento dell’idea originaria del progetto — denunciato peraltro tra tanti ex affiliati di WikiLeaks — la vera sconfitta per Assange. La constatazione che in due giorni di messa online dei documenti non sia venuta fuori neanche una notizia utile per i cittadini, ma solo la rottura con Anonymous.
La sensazione che circola sui social media — tra il silenzio di chi ha sempre difeso l’organizzazione e la delusione dei sognatori — è che questo scontro sia l’ultima puntata «mediatica» di una serie iniziata con le migliori speranze e finita malissimo. Nonostante la colonna sonora firmata Lady Gaga.


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