Pd, battaglia sui posti in lista

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ROMA — La disfida di Piacenza è un po’ il simbolo della lotta fratricida che si combatte nel Pd per un posto in lista. Il braccio destro di Renzi, Roberto Reggi, rischia di restare fuori dal Parlamento, mentre ci sarà  il braccio destro di Bersani, Maurizio Migliavacca. Il quale non solo è piacentino anche lui (è nato a Fiorenzuola d’Arda), ma è l’uomo a cui il leader ha affidato la scrematura finale delle candidature.
Ieri notte il caso Reggi, inviso ai dirigenti toscani, era ancora irrisolto. Bersani ha trovato posto alla filosofa Michela Marzano e al sociologo Franco Cassano, ma a Reggi ancora no. E il giallo sul nome dell’ex sindaco di Piacenza conferma come la sinistra, che ha trionfato alle primarie, abbia messo in minoranza i riformisti.
Il malumore è forte in tutte le correnti: protestano gli ambientalisti per l’esclusione di Ferrante e Della Seta, il renziano Andrea Sarubbi attacca tutti (Renzi incluso), i consumatori alzano la voce contro l’idea di mettere in lista l’ad delle Ferrovie Mauro Moretti… Ma chi forse paga il prezzo più alto sono quei liberal che si sono battuti nel tentativo di spostare il baricentro del Pd verso le posizioni di Monti. C’è chi ha scelto di non candidarsi alle primarie, chi per orgoglio non ha chiesto la deroga a Bersani e chi sperava in un posto nel listino dei garantiti, che invece non ci sarà . E così quell’area filomontiana che si è divisa tra veltroniani e renziani rischia di assottigliarsi molto, privando il partito di «tecnici» di valore.
Pietro Ichino è passato con Monti, senza che i vertici del Pd si siano agitati più di tanto per convincerlo a restare. E altri montiani del Pd stanno dialogando con il centro, anche se al Nazareno si prevede «al massimo qualche fuga isolata». Enrico Morando ha deciso di restare e però spera che da qui a martedì, quando la Direzione ufficializzerà  le liste, Bersani trovi il modo di ristabilire il pluralismo. «La nostra area è stata penalizzata, perché noi siamo nell’epicentro del conflitto — conferma Giorgio Tonini —. Ma finirà  con un happy end, perché Bersani e Monti non potranno non collaborare per il governo del Paese». La tesi di Tonini è che, nello schema del segretario, i riformisti in lista «non servano più di tanto» perché poi il Pd dovrà  allearsi con il centro. «E questo schema ha il suo prezzo — conclude — quello della non autosufficienza che Monti vuole far pagare al Pd».
Bersani ha vissuto con insofferenza il movimentismo dei fautori dell’agenda Monti e il 12 gennaio, pur stimando Morando per le sue competenze economiche, potrebbe disertare il convegno di Libertà  Eguale a Orvieto, che sarà  aperto da una relazione di Monti. Se i riformisti pensano che il segretario abbia esagerato nel «bersanizzare» le liste, Matteo Orfini non è d’accordo: «Se parliamo di politica e non di posti, le idee di chi ha firmato le lettere pro agenda Monti hanno piena cittadinanza nel Pd. Molti di quei temi sono stati raccolti da Renzi, una delle personalità  più valorizzate…».
Eppure Marco Follini pensa che Bersani abbia fatto come Fanfani nella Dc del ’54: «Scatenò i suoi armigeri e sbaragliò la vecchia guardia degasperiana. Bersani ha guadagnato molto in forza, ma ha perso qualcosa in termini di ampiezza di consenso». Per Walter Verini invece «la cartina di tornasole» non è tanto la presenza negli organismi, quanto il programma di governo: «Il Pd va misurato per la sua agenda riformista». Lei ci crede, alla scissione dei liberal? «Non esiste, le battaglie si fanno dentro i partiti». Stefano Ceccanti ha fatto la sua battaglia conquistando la vetta delle statistiche sul rendimento dei senatori, eppure al momento il costituzionalista è fuori: «Nel comporre le liste andavano rispecchiati gli equilibri emersi con le primarie per la premiership». Davvero vuole lasciare il Pd? «Sono in silenzio stampa…».


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