Napolitano tra i detenuti: lo Stato viola la Costituzione

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MILANO — I quirinalisti esperti rilevano che il presidente Giorgio Napolitano ultimamente si commuove spesso. Resta il fatto che la sua di ieri è stata la prima volta in assoluto di un capo dello Stato in visita a un carcere-simbolo come San Vittore. La voce gli si incrina prima ancora di entrare nelle celle del sesto raggio, stipate fino a otto detenuti e più dove potrebbero starcene quattro al massimo. Quando riemerge in strada, alla fine, la sua sintesi emotiva è nella risposta data di slancio a chi invocherebbe un’amnistia: «L’avrei firmata non una ma dieci volte…».
Il condizionale è sintomatico del tono complessivo tra denuncia, monito, solidarietà  umana e rammarico politico che segna l’intero suo discorso, rivolto nella rotonda centrale del carcere a una rappresentativa di detenuti, agenti, operatori e volontari. Napolitano richiama la condanna «mortificante» inflittaci dall’Europa per le condizioni delle nostre carceri e che mina «il prestigio e l’onore dell’Italia». Stigmatizza — e fa effetto sentirlo dire dal presidente della Repubblica in persona — la «perdurante incapacità  del nostro Stato a realizzare un sistema rispettoso dell’articolo 27 della Costituzione»: non solo per il sovraffollamento dei quasi 67mila detenuti in Italia contro 46mila posti teorici con tutto quel che ne segue, degrado umano e suicidi compresi, ma più in generale per la «mancata attuazione delle regole penitenziarie europee». Rivendica di averci provato e punta il dito contro quanti — in pratica tutti — non l’hanno ascoltato: «Ho colto ogni occasione per denunciare l’insostenibilità  della condizione delle carceri. Avrei auspicato che i miei appelli fossero raccolti in misura maggiore: ma vi assicuro — sottolinea — che è accaduto lo stesso anche per molti altri da me lanciati».
Prima di lui parlano la direttrice del carcere Gloria Manzelli e il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, che mettono sul piatto la drammaticità  della situazione oggettiva e gli sforzi quotidiani di chi cerca di fronteggiarla ogni giorno. Poi è la volta di due detenuti, Francesco Fusano e la francese Marie Helene Ponge: «Se un uomo viene messo nelle giuste condizioni può cambiare», gli dicono. E a nome di tutti gli consegnano un quadro, un set da scrivania e due sciarpe fatte a mano per lui e la moglie Clio. Il presidente ascolta tutti, rilancia la palla al Parlamento che verrà  ed è qui che si commuove evocando le «umane sofferenze di cui lo Stato repubblicano deve farsi carico con quella determinazione, coerenza e continuità  che finora purtroppo non ha mostrato». «Non intendo dire nulla che possa anche solo apparire un’interferenza», precisa, ma «confido che la mia testimonianza e le mie parole di oggi possano essere raccolte da chi mi succederà  e da tutte le istituzioni rappresentative, a cominciare dal Parlamento che sta per essere eletto». Nel corso della visita al sesto raggio — il più disastrato dell’istituto — non si risparmia nulla: le celle, i bagni, tante mani strette, alcuni gli lasciano una lettera.
All’uscita va incontro all’europarlamentare Marco Cappato, alla testa di un presidio di Radicali che gridano «amnistia». Fosse stato per lui «anche dieci volte», dice, ma «serve un consenso parlamentare che è mancato». «La cosa cui tuttavia non mi posso arrendere — prosegue — è che si dica: “amnistia o nulla”. Ci sono altre cose che si possono fare, e bisogna fare tutto quello che è possibile». E lui promette che continuerà  a provarci da parlamentare: «Fino a quando avrò un po’ di energia mi batterò per questo. Posso fare ancora molte cose». Qualcuno gli riassume tutte le altre riforme da lui invocate e non fatte. «Questi sono i limiti di un presidente in un sistema non presidenziale — conclude lui — e nemmeno io vorrei lo diventasse. Ma, vi prego: non mi ricordate le mie delusioni».
Paolo Foschini


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