Senatore a vita dal ’91 grazie a Cossiga, nel 2004 il pesante verdetto giudiziario

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Una frase celebre, attribuita a Giulio Andreotti, diceva: «Il potere logora chi non ce l’ha». E si potrebbe dire, senza malignità , che l’uomo è stato male non soltanto per i tanti anni (ne aveva ormai novantaquattro, essendo nato nel 1919 e gran parte dei suoi coetanei di politica hanno dovuto lasciar da tempo il mondo) ma anche perché, ormai da vent’anni, di potere ne aveva poco. È, infatti, da più vent’anni senatore a vita nominato da quel presidente eversivo della Repubblica che rispondeva al nome di Francesco Cossiga, noto soprattutto per esser stato il ministro degli Interni del governo Andreotti nel 1978 quando Moro fu rapito e ucciso, e ha avuto tutto il tempo di compulsare il suo immenso archivio che interesserebbe molto gli storici se a loro fosse permesso di consultarlo.
Ma, con i vincoli che dominano nel nostro paese diventato negli ultimi anni un esempio di cinismo collettivo (da parte delle classi dominanti, si intende) si può prevedere che passeranno molti anni prima che la consultazione sia possibile. E che lo stato italiano, o meglio la classe politica del momento, potrà  sollevare ancora una volta il segreto di stato che l’Italia conserva ostinatamente (malgrado gli ultimi tentativi di abolirlo) sicché chi vuole conoscere vicende del nostro paese di cinquanta o settant’anni fa è costretto tuttora a consultare i grandi archivi stranieri per conoscere i rapporti dell’Italia fascista o anche di quella repubblicana nei suoi primi o tre decenni con gli altri paesi dell’Occidente o dell’Oriente. Pessimismo, dirà  qualcuno o realistica previsione del prossimo futuro?
Lasciamo ai lettori l’ardua previsione. E ritorniamo al destino storico e politico che Giulio Andreotti ha svolto per più di mezzo secolo nella politica italiana. Legato da sempre al Vaticano, è l’uomo che ha ricoperto, dai primi anni quaranta ai novanta, il maggior numero di cariche di vertice nei governi repubblicani, a cominciare da quello di grande importanza che ebbe nei primi governi De Gasperi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio negli anni dell’Assemblea per la stesura della costituzione repubblicana. Ed è stato per sette volte (un primato ineguagliato) capo del governo in momenti decisivi per la nostra storia, il più importante dei quali fu il governo degli anni tra il 1976 e il 1979 quando il partito comunista fu associato alla maggioranza democristiano-socialista che dovette affrontare le ondate dei terrorismi.
Ma si può dire che l’episodio in cui il suo nome fece più volte il giro del mondo fu quello in cui venne processato a Palermo dal 2 maggio 1993, dopo la rituale autorizzazione a procedere concessa dal senato della repubblica, con il pieno consenso peraltro dell’imputato.
Per più di dieci anni si svolsero le udienze contro Andreotti prima in Tribunale, poi davanti alla prima sezione della Corte di appello palermitana, quindi dinanzi alla seconda sezione della Corte di Cassazione a Roma fino al 15 ottobre 2004, in cui la Corte stabilì di confermare la sentenza di secondo grado e mandare assolto l’ex presidente del Consiglio, essendo il reato attribuito in ordine al reato di associazione esterna alla mafia siciliana (commesso secondo i giudici siciliani fino alla primavera del 1980) estinto per prescrizione. La Cassazione confermò per il resto la sentenza di primo grado appellata.
Dopo quella sentenza, anche per le colpe di una Rai lottizzata dai partiti e di giornali fedeli ai governi del tempo, si diffuse una leggenda non ancora morta dopo vent’anni di populismo trionfante di Berlusconi. La leggenda secondo cui i giudici hanno tentato di incastrare uno dei maggiori protagonisti della politica nazionale ma, alla fine, hanno dovuto rinunciare perché non hanno trovato le prove per condannare Giulio Andreotti.
E invece,a distanza di quasi dieci anni dalla pronuncia della Cassazione che -ricorda Livio Pepino – confermò l’attendibilità  degli accertamenti fatti dai giudici rispetto al ruolo di Andreotti fino alla primavera 1980 vale ciò che scrissi allora dopo la sentenza di secondo grado: «La sentenza di appello di Palermo fa un notevole passo avanti rispetto alla sentenza di primo grado,sia dal punto di vista del metodo che da quello del contenuto. Procede infatti ad accantonare quel modo di procedere che aveva caratterizzato nel 1999 la sentenza (che consisteva nel considerare i vari episodi come separati e non collegati l’uno con l’altro) e a sottovalutare l’aspetto associativo (centrale,invece come avevano intuito Falcone e Borsellino, per indagare sul fenomeno mafioso e sui rapporti tra mafia e politica). E ritorna,in questo senso, all’interpretazione che aveva retto dall’inizio il maxiprocesso del 1992. Ma non va oltre,giacché non si pone il problema di cosa avviene negli anni ’80 – nei quali è storicamente accertato il proseguimento del rapporto tra gli andreottiani e Cosa Nostra – e per questa via arriva all’assoluzione, sia pure parziale, dell’imputato».


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