“Giuliano era un reclutatore” dagli appelli-web alla guerra santa ecco le rotte dei nuovi combattenti

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ROMA — Giuliano Ibrahim Delnevo era un reclutatore. Un reclutatore “in Rete”. Intesa non come Al Qaeda, ma come il web. O, almeno, di questo si erano convinti la Digos di Genova e i pubblici ministeri Nicola Piacente e Silvio Franz che lo indagavano. Prima che sparisse dal-l’Italia nel dicembre scorso, era entrato in contatto con tre uomini
che vivevano nell’estremo Ponente ligure. Stranieri, ma musulmani come lui. E, forse, da avviare al fronte siriano. Forse. Perché come reclutatore, alla fine, Delnevo non doveva essere granché se è vero che almeno due di quei suoi compagni di strada non lo avrebbero seguito verso Aleppo.
Il dettaglio (pure rilevante in un’indagine penale che in queste ore cerca di verificare se quello di
Ibrahim sia stato davvero solo un percorso individuale) finisce per raccontare che nella storia di Delnevo, nella sua radicalizzazione,
c’è la conferma di un dato che, a partire dal 2009, appare evidente alla nostra Intelligence e alle nostre polizie. È la rete, oggi, il luogo centrale di formazione dei mujaheddin. Non più le moschee, non più gli imam itineranti e in qualche misura neppure le carceri, dove certamente la forza del proselitismo si raddoppia, ma con lei anche la sorveglianza. È dunque nella Rete, in particolare nei social network e nei gruppi
di discussione, che il percorso alla Jihad può farsi da lungo, brevissimo. Per gli uomini e — spiega una fonte dell’Aisi, il nostro Servizio interno — «persino per le donne, pure normalmente più restie a processi di radicalizzazione repentini». È accaduto in questi anni per la Siria. «Ma — osserva un’altra qualificata fonte della nostra Intelligence — accade per l’intera mappa che la Jihad offre oggi agli aspiranti mujahhedin. Oltre alla Siria, la penisola arabica, la Cecenia, l’Africa subsahariana, l’Afghanistan, la Cecenia, l’Egitto».
La Rete ha un vantaggio. Riduce se non addirittura azzera la necessità di un’organizzazione strutturata di indottrinamento e reclutamento, la disponibilità di luoghi e quella di “spalloni” di carne umana destinata al martirio. «Per raggiungere il fronte siriano — spiega Gabriele Del Grande, autore del blog “Fortress Europe” e con un’importante esperienza di osservatore sul campo in Siria — è sufficiente andare su Facebook. I combattenti arrivano alla spicciolata, seguendo rotte del tutto casuali. Legate al tipo di contatto recuperato sulla Rete». Per lo più, entrano dal confine turco-siriano (che lo stesso Delnevo aveva una prima volta provato a bucare senza successo un anno e mezzo fa). Ma la permeabilità dei confini del Paese rende ogni rotta possibile e accessibile.
Quanti siano oggi, quanti ne siano arrivati nell’ultimo anno è domanda cui non rispondono che statistiche imperfette. Per lo più basate su osservazioni a campione. E se le si deve prendere per buone, si può concludere che oggi, in Siria, i combattenti cosiddetti “stranieri” oscillano tra i 2 e i 3 mila. Un dato empirico confortato anche dalle “proiezioni” della nostra intelligence. Con una chiosa. «Sicuramente — osserva una fonte del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza — non siamo su cifre importanti. Ma, soprattutto, in quelle poche migliaia di mujaheddin hanno una grande incidenza i ceceni e gli afghani. Insomma, gli “europei” sono davvero molto pochi. E, spesso, sono figli o nipoti di siriani della diaspora. Con sangue siriano, dunque, ma passaporto dei Paesi in cui sono nati i loro genitori o i loro nonni». Un ragionamento che, a quanto pare, vale anche per l’Italia. «Per quello che risulta a noi — prosegue la fonte del Dis — a parte Delnevo, a partire dall’Italia verso la Siria sono stati solo i siriani della diaspora. E parliamo di pochissime unità».
La circostanza — a dire dell’Intelligence — collocherebbe dunque il nostro Paese non solo fuori da qualsivoglia “rotta” consolidata verso la Jihad, ma azzererebbe anche il rischio cosiddetto del “mujaheddin di ritorno”. Quello che, alla fine delle ostilità, fronteggiano quei Paesi che hanno alimentato l’esportazione di martiri e combattenti e ne devono sopportare i costi del ritorno in termini di sicurezza. «Se ci sono due Paesi che avranno un effetto “ritorno” dalla guerra civile in Siria — osserva una fonte del nostro controspionaggio — questi sono sicuramente l’Egitto, il Libano e, più in generale l’area dell’Africa mediterranea. Non certo l’Italia e neppure quella parte di Europa che ci è contigua. Come la Francia o la Spagna».


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