Le «minacce» alle larghe intese e quella finestra elettorale a ottobre

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ROMA — Il giorno del giudizio universale è più vicino, ora che è stata fissata la data per la sentenza su Silvio Berlusconi. E la celerità, che ha colto tutti di sorpresa, non ha comunque cambiato il copione dei protagonisti né il canovaccio di una drammatica storia che va in scena da venti anni e ora sembra arrivata all’ultima replica. «È stata la procura di Milano a dettare la decisione della Cassazione», sostiene il Cavaliere. Ed è un già detto, come quello di Enrico Letta, secondo cui «sul governo non ci saranno conseguenze»: un mantra per il premier che cerca di esorcizzare il rischio della crisi, qualora il leader del centrodestra venisse definitivamente condannato.

La trama insomma sembra svilupparsi senza variazioni, ripetitiva e dunque noiosa, se non fosse che l’evento potrebbe far collassare l’intero sistema, già in preda alle prime convulsioni. Con un partito, il Pdl, scosso e frastornato, che è accecato dall’ira verso le «toghe politicizzate» quasi quanto il suo capo, e medita ciò che medita da sempre, le manifestazioni di piazza, i girotondi attorno ai palazzi di giustizia e alla Cassazione, le dimissioni di massa dal Parlamento, la crisi di governo; denunciando quel che Berlusconi per ora non può denunciare, e cioè la manona internazionale, il golpe nazionale, i complotti editorial-giudiziari.

Tutto già detto, tutto già previsto, come nel finale di una partita a scacchi: con la condanna del leader, il voto del Senato che lo dichiara decaduto, la sentenza che lo rende ineleggibile. Un atto di guerra a cui rispondere dichiarando anzitempo guerra, con la fine del governo e il disperato tentativo di arrivare alle urne prima dello scacco matto giudiziario. In effetti la finestra elettorale è formalmente ancora aperta, lo sarebbe anche a fine luglio quando è prevista la sentenza, consentendo il voto per metà ottobre. I calcoli sono stati fatti ieri a palazzo Grazioli, davanti a un Berlusconi a cui l’avvocato Coppi ha imposto il silenzio, esponendosi mediaticamente come mai aveva fatto nella sua carriera forense, proprio per evitare che il suo assistito si esponesse.

Resta da capire, e non è poco, se davvero l’esito (giudiziario) è scontato. Così come resta da capire, e non è poco, se davvero l’esito (politico) sarebbe altrettanto scontato, se il tentativo del Pdl di forzare la mano per ottenere le urne andrebbe a segno, data la contrarietà del Quirinale. E dire che il copione della legislatura era stato studiato fin nei dettagli, sotto la regia di Napolitano: prevedeva l’orizzonte del 2015 per il governo «di servizio», le riforme costituzionali, una nuova legge elettorale. E non c’è dubbio che la buona volontà del premier di portare a compimento la missione ci fosse e ci sia ancora, se è vero che ieri sera — nonostante la tempesta giudiziaria fosse già iniziata — Letta ha assicurato la cancellazione dell’Imu sulla prima casa, rendendo pubblica la promessa fatta a Berlusconi.

Ma sul Colle c’è grande preoccupazione, anche perché tutto sembra tramare contro l’esperimento delle «larghe intese», dentro e fuori i confini nazionali, visto che ieri l’ineffabile agenzia di rating S&P ha deciso di declassare l’Italia proprio mentre si intravvedevano i primi segnali di ripresa economica. Non è detto però che il finale giudiziario sia già scritto, siccome nel Palazzo c’è una scuola di pensiero secondo la quale l’accelerazione del giudizio su Berlusconi da parte della Cassazione sarebbe prodromica a una sentenza benevola. E comunque non è detto che — a fronte di una condanna del Cavaliere — il governo cadrebbe per mano del centrodestra.

Ecco l’unica variante di un copione mandato ormai a memoria dagli attori politici e dal Paese. E se, invece del Pdl, fosse il Pd a staccare per primo la spina a Letta, qualora Berlusconi capitolasse? Ieri, per evitare di far salire ulteriormente la tensione, i dirigenti democrat non hanno rilasciato commenti. Solo la Bindi ha rotto la consegna del silenzio, e la sua critica alle dichiarazioni dei ministri pdl solidali verso il Cavaliere è parsa anche un contropelo al premier. Questa sortita è la spia di un sentimento ostile alle «larghe intese» che nel Pd non si è mai sopito, e che potrebbe risvegliarsi se il leader del centrodestra venisse definitivamente condannato.

In quel caso, fino a che punto lo stato maggiore democratico riuscirebbe a reggere le pressioni della base che chiedesse di rompere con il partito di Berlusconi? Quanto a lungo il Pd potrebbe resistere all’offensiva dei social network, ai girotondi su internet e nelle piazze? «E chi — si chiede Fioroni — avrebbe interesse a cavalcare tutto questo per fini personali?». Il dirigente democrat — senza mai citarlo — evoca Renzi, ormai lanciato verso palazzo Chigi e che nell’eventuale sfida elettorale si troverebbe davanti un centrodestra orfano del leader storico. Fioroni non va oltre, aggiunge solo che «per fortuna abbiamo un capo dello Stato a cui stanno a cuore gli interessi del Paese e non gli interessi particolari».

Si torna così sempre a Napolitano, considerato il garante di un sistema che rischia di crollare. Il giorno del giudizio universale si avvicina e non è detto che il copione sia scontato. Di certo non ci saranno altri rinvii a una sentenza che non riguarda solo Berlusconi.

Francesco Verderami


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