I FANTASMI DEL MONTE MALEDETTO

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MONTE PASUBIO. Eccola in mezzo ai tuoni la caldaia delle streghe, il luogo dove vivere fu più duro che morire. Sfiata lingue di vapore da rocce gialle e sinistre, forse non ha mai smesso di fumare da allora, come un vulcano che dorme dopo la grande eruzione. Sopra uno sterminio di canaloni, pinnacoli e gole da racconto nero di Buzzati, la sua cima biforcuta tocca i 2200 metri, ma non si sa quanti ne abbia persi con le esplosioni tra il ’16 e il ’18. Cinquanta, cento, qualcuno dice centottanta. I massi enormi — alti fino a trenta metri — spostati lassù parlano di un evento inumano, qualcosa da inserire negli annuari della geologia più che nella storia. È la montagna dal nome di tenebra: il Pasubio.
Legioni di insepolti giacciono ancora nelle gallerie del termitaio che fu la cima. Tutto si giocò in un brandello di montagna di duecento metri per ottanta che fece 4500 morti, tanti che per farceli stare tutti insieme — scrisse il generale austriaco von Ellison — si sarebbe dovuto impilarli, e forse non sarebbe bastato. I corpi fatti a pezzi erano così numerosi che si aspettò il 1921 per riaprire la montagna agli umani. Ventisei mesi c’erano voluti per sgomberarla dai corpi. Ma le ossa biancheggiarono così a lungo nei burroni che fino agli anni ’50 si piazzarono dei cestini perché i gitanti le deponessero. A fine stagione gli alpini col cappellano militare ne portavano via carrettate.
Anche sulla mappa ha una forma sinistra la montagna maledetta. Niente a che fare con il blocco isolato del Pelmo o la divina scogliera delle Tofane. Nelle Piccole Dolomiti il Pasubio disegna un polipo i cui tentacoli si ramificano in tutte le direzioni. Su quello che si protende verso il Novegno, a monte di Schio, corre il famoso sentiero delle 52 gallerie. Golgota dei soldati e sublime capolavoro degli ingegneri, dice cosa è capace di fare l’uomo per costruire la propria morte. Qui ci si ammazzò di fatica per mesi, come schiavi delle piramidi, solo per camminare sulla rampa di un’inevitabile crocefissione.
Bocca di Campiglia, quota 1179. Salgo nella pioggia con l’alpinista di Recoaro Franco Perlotto e il gestore del rifugio Campogrosso, Davide Ferro. L’inizio è sacrilego: due muri di cemento rosa eretti per imbottigliare i turisti verso una biglietteria che non c’è, costo mezzo milione di euro. S’era pensato di ripagare quella follia con l’obolo d’ingresso, ma poi s’è lasciato perdere nel timore di dover risarcire i visitatori per eventuali incidenti su una montagna, per così dire, privatizzata. Solo per questo oggi il “bip” di un cancelletto non uccide la leggenda del Pasubio. Figurarsi se era per
rispetto dei morti.
Tuoni lontani, verso il Baldo. Salita lenta, col magone. Il più cupo è Perlotto. Ha speso una vita in zone d’emergenza, con la Cooperazione italiana. «Dopo i bombardamenti nel Sud Sudan e soprattutto dopo tre attentati a Kabul, conosco l’odore della morte. Sangue, merda e decomposizione. Posti così mi mandano in ansia. Qui i ragazzi salivano pallidi come Cristo, sapendo di non tornare. E intanto Cadorna si sbarbava in albergo».
Ma qui, almeno, la guerra delle cime ebbe un senso, qui non si visse l’inutilità della morte in salita come sul Col di Lana o l’Ortigara. Sul Pasubio, come sul Grappa, gli italiani compirono un capolavoro nella primavera del ’16, bloccando la Strafexpedition a un soffio dalla pianura. Lo fecero con forze minime, nonostante Cadorna fosse stato messo sull’avviso con anticipo. Il generalissimo non aveva ascoltato nessuno, nemmeno Cesare Battisti, che pure era nato su quelle montagne e aveva notizie precise dal Trentino. «Il generale — gli fu detto dopo una lunga anticamera — non ha bisogno del tenente Battisti».
Nebbia da Giro d’Italia, tornanti che s’attorcigliano su un purgatorio di anime perse. Non un uccello che canti, oppressione nell’aria. Davide conosce a memoria il terreno, lo descrive a voce bassa, come per non disturbare. «Qui risento i racconti di mio padre. Ma il vero tuffo al cuore arriva quando in Sardegna o Abruzzo leggo su un monumento la parola Pasubio».
Sulla cima, storie di fantasmi. Ne sa qualcosa Mauro Zattera, un trentino che ha speso mesi attendato sul Pasubio a studiarne la complicata topografia. «È un monte corteggiato dalle folgori, ti accorgi subito che c’è qualcosa di strano. Una sensitiva belga che è stata portata al rifugio Papa, ex posto di comando italiano, si è rifiutata di entrare. Il gestore ti narra storie che poi ti raccomanda di non riferire, “se no — dice — ci prendono per ubriaconi”».
«Una sera — dice il Mauro — siamo saliti a dormire e, verso le due di notte, una tremenda baldoria ci ha svegliato tutti. Veniva dalla stanza di sotto. Urla, canti, risate. È durata a lungo, e stavamo già per scendere a insultare i maleducati, quando è tornato il silenzio. Al mattino abbiamo detto al gestore che cose simili non erano tollerabili. Lui ci ha guardato strano e ha risposto ridendo: ma se siete soli in tutto il rifugio! Siamo rimasti senza parole. E poco dopo, quando abbiamo filmato, lì vicino, il luogo della cattura di Battisti, la telecamera ci ha restituito un filmato buio».
In cima i resti di un’intera città di baraccamenti appesi a strapiombi, a trecento metri dal luogo del combattimento. Quella italiana era così grande che la chiamavano “il Milanin”, la piccola Milano. In quella sul dente austriaco la vedetta, per dare ai reparti la certezza di non essere stata soppiantata da attaccanti italiani, doveva sparare un colpo ogni minuto. Se dopo due minuti il silenzio proseguiva, le riserve scattavano in automatico per rimpiazzare l’uomo, sicuramente accoppato da un cecchino. Era uno scontro millimetrico, segnato — scrisse un superstite — da “un formichio di esseri… sovrannaturali demoni… che correvano fra le rovine…, le fiammate delle bombe a mano e le eruzioni delle granate”.
Faccio sogni orrendi quella notte al rifugio Campogrosso. Qualcosa di innominabile mi sta entrando dentro: l’orrore cimiteriale di una guerra immobile per topi, calata nella putredine di fogne. All’alba mi salva solo la neve. Scende benedetta e silente tra le guglie e le forcelle.
(23 – continua)


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