Preso il fratello del leader di Al Qaeda

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Forse una di quelle dove Mohamed ha già trascorso dei lunghi «soggiorni». Ex membro della Jihad, legato alla corrente estremista dei salafiti, 60 anni, ha conosciuto spesso le celle del Mukhabarat, la polizia segreta. E non solo a causa del suo cognome.
Laureato in ingegneria — una delle facoltà preferite dagli islamisti —, Mohamed ha accompagnato il fratello Ayman sulla via della lotta armata. Infatti, le autorità lo hanno messo in galera una prima volta dopo l’assassinio del presidente Anwar Sadat, trucidato da un commando di terroristi. Dopo aver scontato una condanna a 14 anni, è emigrato vivendo in Arabia Saudita, Yemen, Sudan ed Emirati. Un’esistenza in esilio sempre in contatto con il mondo dell’estremismo, in particolare con quello dei mujahedin egiziani. Nel 1998 Mohamed è stato condannato a morte nell’ambito del processo ai cosiddetti «reduci d’Albania». Un verdetto che lo costretto a stare alla larga dal Paese. Almeno fino alla caduta del regime di Hosni Mubarak. Rientrato in Egitto si è distinto per l’impegno politico al fianco delle correnti più radicali, tanto è vero che lo hanno riarrestato e poi prosciolto.
Mohamed ha frequentato abbastanza la nebulosa che mescola religione, jihadismo e pragmatismo, per questo ha sempre mantenuto una posizione dove ha alternato prese di posizione dure con apparenti offerte di dialogo. Un modo per galleggiare. Così ha appoggiato l’idea di Califfato sostenuta da Ayman, ma al tempo stesso si è presentato come mediatore con l’Occidente: «Sono la persona adatta per trattare», ha detto una volta. «Non interferite nei nostri affari — ha aggiunto — e non lo faremo nei vostri». Un baratto che richiama l’offerta di tregua lanciata da Osama nel 2004. Una sintonia che non sorprende. Lui lo stesso lo ha riconosciuto: «Non sono di Al Qaeda, però ne condivido l’ideologia». Mohamed non ha perso occasione per cavalcare le proteste di piazza e cercare attenzione, forse anche oltre il suo effettivo peso. Naturalmente sempre pronto a denunciare i «complotti» orditi a suo dire dagli americani. Altri strali li ha riservati ai francesi dopo l’intervento in Mali e allo «sporco sistema» della democrazia. Parole che rispecchiano la visione del fratello Ayman, visto per l’ultima volta — ha sottolineato — nel 1996 nel Caucaso. Lontani geograficamente ma ancora vicini sul piano politico. Almeno secondo i generali che hanno ordinato l’arresto di Mohamed, una mossa che torna utile sul piano propagandistico per far circolare l’idea che l’avversario è rappresentato da «terroristi» sanguinari.
Guido Olimpio


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