Giovanardi battezza la fronda dei 40 “Sarà durissima, ma prima c’è il Paese”

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ROMA. «OH BEDDA matri!» sbotta Domenico Scilipoti quando gli chiedono, alla fine di un suo contortissimo elogio della «responsabilità », se anche lui dirà addio a Berlusconi, lui che una volta lo salvò tradendo Di Pietro. «A mmia…» ricomincia, prima di tornare all’italiano, «a me stanno a cuore gli interessi del Paese, che non si può permettere una crisi al buio: lo dicevo nel 2010 e lo dico nel 2013».
DUNQUE voterà la fiducia al governo? «Deciderò pensando a quel benedetto articolo 67 della Costituzione. Ha presente? Ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato… ». Sono le quattro del pomeriggio, e nel salone Garibaldi di Palazzo Madama il senatore che ha inventato lo “scilipotismo”, il pronto soccorso al vincitore in bilico, sorride all’idea di essere corteggiato da chi ieri lo sbeffeggiava, anche se al momento qui di corteggiatori non se ne vedono. E non si vedono neanche gli scissionisti, quelli che si preparano a essere bollati come traditori dalle tv e dai giornali del tradito. «A quest’ora stanno facendo i conti e tirando le somme» confida il portavoce di uno dei ministri dimissionati, spiegandomi che la spaccatura del Pdl ormai non è più solo una tentazione. Già, ma dove sono? Qui non se ne vede uno solo. Dall’aula esce Sacconi, ma corre via sussurrando “no comment”. Giù nel cortile, davanti al bar dei dipendenti, il senatore siciliano Pippo Pagano sta telefonando: fisico asciutto, baffetti curatissimi, lui è uno dei tre catanesi, con Castiglione e Torrisi, che si sono rifiutati di firmare la lettera di dimissioni da parlamentare. Dove va, senatore? «È tutto molto triste» risponde lui, posando la borsa di cuoio gonfia di carte. Tristezza per la rottura di Berlusconi che non vuol rassegnarsi alla decadenza da senatore? «Le ragioni di Berlusconi si possono capire: ha ragione da vendere. Ma poi ci sono anche le ragioni del Paese, no? Adesso devo andare, si riunisce la commissione e poi abbiamo una riunione dopo l’altra…». Ma certo, si capisce.
Al Senato, dove Letta sta per sfidare Berlusconi a mettere le carte in tavola, l’atmosfera è quasi surreale. In aula manca il numero legale e i pochi presenti sciamano lentamente verso la buvette, domandando notizie ai giornalisti: rompono o non rompono? La risposta non ce l’ha nessuno. Finché, alle 16,22, l’Ansa batte una dichiarazione di Carlo Giovanardi che suona come l’annuncio ufficiale della separazione dei gruppi: «Voteremo la fiducia. Abbiamo i numeri, siamo più di quaranta…». In un attimo il salone del Senato si svuota:
i senatori tornano negli loro uffici, i cronisti corrono ai computer. Giovanardi però non è qui. E non è neanche a Roma. Al cellulare però risponde subito, e conferma tutto, con quel suo vocione tondo da democristiano modenese. Allora è vero che ve ne andate? «Un momento: io non vado da nessuna parte. Sono iscritto al Pdl, sono stato eletto col Pdl e sono membro del gruppo del Pdl. Sono quelli che vogliono fare Forza Italia, casomai, che escono dal Pdl. Noi voteremo la fiducia non perché non vogliamo difendere Berlusconi dalla grande mascalzonata che gli stanno facendo al Senato. Su quello lui ha e avrà tutta la nostra solidarietà, è fuori discussione. Ma questa storia delle dimissioni, prima dei parlamentari e poi dei ministri…». È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Diciamo che è una mossa che non ha avuto grande consenso, nel Paese e neanche tra i ministri. Ma scusi, guardate chi l’ha decisa. Capezzone era un radicale. La Santanché era la candidata della Destra e diceva peste e corna di Berlusconi. Bondi ha un passato da comunista. Io invece che sono sempre stato democristiano ragiono in un altro modo: fa bene Alfano a dire che dobbiamo votare tutti la fiducia al governo. E se qualcuno non ci sta, deve spiegare lui il motivo, non so se è chiaro».
Quello che è chiaro è che ormai la frattura c’è. Ma gli altri, dove sono gli altri? Una pattuglia è stata avvistata ai tavoli del ristorante “Fortunato” all’ora di pranzo. «Hanno mangiato di corsa e poi sono andati via» racconta il cameriere. Un altro gruppo, alla stessa ora, sta salendo le scale degli uffici della presidenza del Consiglio all’inizio di via del Tritone, proprio mentre i quattro membri del governo “dimissionati” — usciti con un sospiro di sollievo da Palazzo Grazioli — sono riuniti a Palazzo Chigi a fare il punto con Letta. Gaetano Quagliariello, scendendo le scale della presidenza del Consiglio, confida a un collega il suo stato d’animo: «Siamo solo all’inizio, lo so. Domani quelli con cui ho lavorato per vent’anni mi daranno del traditore. Sarà durissima. Ma io penso alle mie figlie, che un giorno mi domanderanno: papà tu c’eri, perché hai permesso che tutto questo avvenisse? E io, quel giorno, voglio poter rispondere senza abbassare lo sguardo».


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