Le «riserve» del Quirinale Resta la via del ricorso

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In assenza di un’esplicita presa di posizione, si sa che Giorgio Napolitano resta «in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza» e, come recita un’asciutta nota del Quirinale, quest’attesa «per valutarla» si consuma «nel massimo rispetto istituzionale».
Nessun commento in nessun senso, dunque. Nessuna polemica. Anche se sull’intera questione ci sono delle riserve, sul Colle. Non è insomma un azzardo pensare che una simile svolta non fosse davvero data per scontata. Infatti, la sentenza della Corte Costituzionale del 4 dicembre 2012 sembrava di per sé escludere la possibilità di comprendere il presidente tra i testi di quel giudizio. Non a caso, quando fu accolto il ricorso per conflitto d’attribuzioni, si stabilì che il capo dello Stato non è mai soggetto alla magistratura ordinaria e che le comunicazioni a lui riconducibili non possono essere da questa nè ascoltate nè valutate. E con ciò La Corte sottolineava un principio di riservatezza che — stando al parere di diversi giuristi — dovrebbe «coprire» per intero il suo campo d’azione nel periodo in cui riveste l’incarico. Comprese le «interlocuzioni» avute con Loris D’Ambrosio, sulle quali si vuole appunto chiamarlo ad approfondire certi riferimenti dai contorni oscuri di una lettera dal significato quasi testamentario (con il cenno a «indicibili accordi») scritta dal suo consigliere poche settimane prima di morire, stroncato da un infarto.
Possono sembrare questioni da azzeccagarbugli, smanie di costituzionalisti sempre pronti a spaccare il capello in quattro, ma non lo sono. Nell’unico precedente in qualche modo assimilabile, che risale all’autunno 1990, l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga accettò di essere sentito — in una fase peraltro non dibattimentale — dai magistrati che indagavano sulla strage di Peteano, sull’ipotesi indiziaria di un collegamento tra quell’autobomba e una struttura clandestina della Nato (Gladio). Aderì alla richiesta dopo un ruvido contrasto con i giudici, contrasto nel quale aveva rifiutato in un primo momento di entrare nel procedimento e facendo alla fine mettere a verbale che le sue erano dichiarazioni spontanee e rese senza alcun obbligo, in quanto «sottoporre il capo dello Stato a un altro potere potrebbe affievolirne la capacità decisionale».
Un caso da studiare, quello di adesso. E in cui non va esclusa la possibilità che il Colle trovi da eccepire su alcuni punti dell’iniziativa palermitana, investendo ancora la Consulta del problema. Dipenderà da quel che avranno messo nero su bianco i togati dell’Assise. Se invece, magari per evitare d’esser investito da una nuova (e inevitabile) ondata di polemiche, Napolitano scegliesse di non contrastare l’ordinanza e dicesse sì, saranno i giudici siciliani a dover bussare al Quirinale. Così prevede la legge.
Di più: poiché le norme prescrivono che le udienze processuali siano pubbliche, la corte sarà obbligata a escogitare qualche soluzione tecnica per ammettere all’udienza almeno una rappresentanza della stampa. Potranno interrogarlo il pubblico ministero, ma anche gli avvocati delle parti civili e quelli degli imputati, secondo il principio del «cross examination» sancito dal nuovo codice.
Chiari i rischi di un simile confronto incrociato, al quale le norme escludono che il capo dello Stato possa evitare di replicare (la «facoltà di non rispondere» è attribuita solo agli imputati, non ai testi). Un rischio è, per esempio, che qualcuno — il pubblico ministero oppure gli stessi legali delle varie parti coinvolte nel processo — abbia la tentazione di condurre l’interrogatorio in una chiave provocatoria, assertiva di una tesi precostituita. E quel qualcuno, se non vedesse confermata quella tesi dalle parole del presidente, potrebbe alla fine contestare ipotetiche omissioni o reticenze, gettando ombre interessate (e difficili da sterilizzare) sulla massima istituzione della Repubblica.
Sono ipotesi borderline, certo. Ma tutt’altro che inverosimili, visto che proprio su queste eventualità ieri già si esercitava maliziosamente qualcuno, a Montecitorio. Del resto, la faccenda della trattativa Stato-mafia è di quelle che hanno intossicato il clima del Paese per molti mesi, rendendo ancora più acuto il conflitto tra politica e giustizia e coinvolgendo tangenzialmente lo stesso Quirinale, destinatario di atterriti appelli telefonici dell’allora indagato (e poi imputato) ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Era poi partita «una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose», disse con durezza il presidente all’indomani dell’improvvisa scomparsa del suo consigliere D’Ambrosio, investito assieme a lui dalla bufera.
Marzio Breda


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