Milan Kundera. LA LEGGEREZZA DELL’ESSERE DIVENTA UNA VERTIGINE SENZA FINE

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Cosa c’è di meglio di un parco per farci sentire, nella grazia livellatrice dell’esistenza, al riparo dalla storia e dalle sue incombenti tragedie? Qui, proprio all’inizio, Alain — uno dei protagonisti de La festa dell’insignificanza — è affascinato e turbato da certe ragazze che esibiscono l’ombelico. In cosa consiste il suo potere di seduzione, si chiede lo scrittore. Ogni volta che si impone una moda, l’erotismo riscrive la sua vitalità prorompente e tende ad adeguarsi ai nuovi dettami. Ma quel perturbante dettaglio anatomico rinvia, come vedremo, a una riflessione più epocale sul mondo: la sua stessa insignificanza è l’emblema di qualcosa che è accaduto e che coinvolge anche gli altri protagonisti, i cui trascurabili destini personali si intrecciano nel vasto paesaggio della vita.
Di loro non si conosce alcun gesto eroico, alcun pensiero alato, alcuna riflessione profonda. Non a caso Alain medita sull’ombelico. E gli altri: Ramon, D’Ardelo, Charles e Caliban come trascorrono le loro esistenze? Nessuno sembra proiettarsi verso le vette del successo. La mediocrità che li avvolge attenua ogni possibile dramma. O ne fa il pretesto di un evento inattendibile. Sicché, quando D’Ardelo scopre di non avere un cancro ma confessa a Ramon, senza una vera ragione, di averlo, è come se quella morte imminente e solo immaginata possa dare spessore e senso alla sua vita.
Anche Alain non è estraneo al dramma: c’è nella sua memoria una madre che non ha conosciuto e di cui conserva una sola foto. A suo tempo si è rivelata una donna terribile: per uccidere la creatura che porta in grembo è disposta a lasciarsi affogare nelle acque della Senna. Un ragazzo che osserva la scena, mentre lei sta annegando, si tuffa e con poche bracciate la raggiunge. Prova a salvarla, ma la donna, ostinata nel suo rifiuto, farà morire il giovane al suo posto: una potenziale suicida si trasforma in assassina. E il commento di Kundera riflette, in questo caso, la cristallina e assurda ferocia della vita: «Colui che ha voluto imporle la vita è morto annegato. E colui che lei voleva uccidere nel suo ventre resta vivo. L’idea del suicidio è cancellata per sempre. Nessuna replica. Il ragazzo è morto, il feto è vivo, e lei farà di tutto perché nessuno scopra quel che è accaduto».
Che singolare scrutatore di anime è Kundera. Guarda al fondo di una persona che ha fermamente deciso di farla finita e ci fa scoprire come la sua storia vada beffardamente in tutt’altro modo. Lo scrittore non partecipa al dramma. Non prova né pietà né
dolore. A che servirebbe, dal momento che è la vita a prendere o a dare ciò che magari neppure ci aspettiamo? Egli descrive i tempi perfetti di un evento come fosse regolato dal battito di un orologio segreto che gli è stato trapiantato al posto del cuore.
Eppure, è difficile resistere alla tentazione di pedinare ogni mossa dei nostri personaggi e scoprire non tanto a quale destino sono chiamati, ma a quale comunità appartengono. Sono davvero l’ultima, epigonale, manifestazione di una specie condannata all’insignificanza? Può stupire che il romanzo riveli al suo interno una deliziosa e feroce parodia dello stalinismo. Improvvisamente, le innocue derive contemporanee, le inconsistenti biografie dei nostri fragili protagonisti sembrano risucchiate nel cupo orrore del dispotismo novecentesco.
In quell’intollerabile, meschina, ridicola esperienza che lo stesso Kundera, come sappiamo, fu costretto a subire. E della quale egli si vendica raccontando, in rapida e alternata sequenza, le sublimi idiozie di Stalin e dei suoi sottoposti.
Sono pagine di sibilante ferocia quelle che lo scrittore praghese ci consegna. Il sovietismo — nella ridicola successione di atti dai quali Charles vuole ricavare uno spettacolo di marionette — si erge qui a categoria dello spirito comico e svela le esilaranti e smarrite figure di Berija, Zdanov, Kaganovic, Krusciov, Breznev, Kalinin. Proprio quest’ultimo è scelto da Stalin per ribattezzare Königsberg, patria di Kant, in Kaliningrad. Un nome così palesemente idiota, ci avverte Kundera, doveva nascondere qualche ragione segreta: «Stalin provava per Kalinin un’eccezionale tenerezza », ma la parola “tenerezza” non si addiceva alla fama del despota crudele. Senonché egli era il solo che potesse permettersi di prendere una decisione assolutamente personale, capricciosa, irragionevole, meravigliosamente bizzarra, superbamente assurda. Non è in fondo anche il più tenue e stravagante degli arbitrii a darci la misura del potere assoluto?
Strano romanzo: tocca tutte le corde di una civiltà al tramonto senza prenderle mai troppo seriamente. Crisi, angoscia, disorientamento — stati d’animo che conosciamo bene — lasciano il passo a un buonumore che si fa strada tra le rovine della storia e la polvere che essa ha depositato. Quale enigma si nasconde? «Solo dall’alto dell’infinito buonumore », scrive Kundera, citando Hegel, «puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne ».
Se il comico è la sola risorsa spirituale che ci resta, allora può anche accadere che Stalin tenga una lezione su Schopenhauer, che Breznev veda un angelo con le ali dispiegate e che l’ombelico diventi davvero il luogo dell’erotismo del nuovo millennio: «come se qualcuno, in quella data simbolica, avesse sollevato una tenda che per secoli ci aveva impedito di vedere l’essenziale: che l’individualità è un’illusione!». Mai Kundera si era spinto così a fondo nelle spire del conformismo, mai si era vista la verità immolata, così ironicamente, sull’altare dell’opinione. In questo romanzo, di flaubertiana seduzione, senza rimproveri né colpe, l’insignificanza è l’essenza stessa della vita. Essa si riproduce nei gesti, nelle scelte, nelle parole, nei drammi delle persone, tocca perfino l’anima delle cose. Cancella il valore degli individui, esalta l’opaca uniformità del loro sentire. E, infine, accoglie tutto questo come fosse il mistero più gioioso. Nel Sipario Kundera aveva scritto: «Solo il romanzo ha saputo scoprire l’immenso e misterioso potere della futilità». E la futilità, con i suoi toni sventati e ilari, è davvero l’altra faccia dell’insignificanza. Stretti nella loro morsa, siamo assaliti dalla vertigine di un bizzarro disorientamento, e assistiamo al repentino venir meno dell’ingrediente principale di ogni tragedia: la serietà. Su questa assenza scivola, senza esitazioni, il romanzo fino a concludersi con la festa nei giardini del Lussemburgo. Qui, dove la Francia coltiva ancora pomposamente il suo passato, si rivedono i protagonisti di questa irrilevante avventura. E noi scopriamo, con incanto, che tutto quello che è accaduto somiglia a una recita. Qualcuno — certamente un maestro — ha tirato i fili della storia. E gli altri hanno obbedito come farebbero delle marionette. Al demiurgo sta a cuore non la vita, ma solo quello che, con la sua sfida artistica, lui della vita è riuscito a creare.


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