Poste in soccorso di Alitalia entra nel capitale con 75 milioni

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ROMA — Poste Italiane è il socio pubblico di Alitalia. Il premier Enrico Letta ha sparigliato il tavolo della estenuante trattativa per strappare la compagnia al rischio- fallimento, chiamando Massimo Sarmi al capezzale del vettore. Prima di lui erano state sondate le Fs (ipotesi ancora non del tutto tramontata), Fintecna, Cdp, ma veti incrociati e rischi sul fronte Antitrust, hanno bloccato ogni iniziativa. E ieri sera, al termine di una settimana di braccio di ferro tra governo, soci italiani e francesi, è arrivato il via libera a Poste e alla sua controllata Mistral Air, la piccola compagnia fondata dall’attore Bud Spencer 30 anni fa e rilevata dal gruppo.
Complessivamente la “manovra” di salvataggio di Alitalia, oggi all’esame del cda e lunedì dell’assemblea degli azionisti, ammonta a 500 milioni di euro: 300 dovrebbero arrivare dai soci vecchi e nuovi, 200 con una linea di credito delle banche. Poste entra in gioco mettendo nel piatto della compagnia di bandiera 75 milioni di euro. Altri 75 saranno iniettati dai soci forti Intesa Sanpaolo, Atlantia e Immsi (Colaninno) con Air France che a questo punto deve sborsare altri 75 milioni per restare in partita. I rimanenti 75 milioni dovuti dai riottosi soci medio piccoli della compagine di “capitani coraggiosi” voluta da Silvio Berlusconi nel 2008, saranno coperti in caso di un diniego, dal consorzio di garanzia degli istituti di credito. Probabile quindi un cambio nella governance e una ritirata strategica di tutti i soci minori che non sono in grado di mettere le mani nel portafogli.
Ma la salvezza del vettore avrà un costo molto alto per coloro che l’hanno gestita in questi cinque anni portandola sull’orlo del secondo fallimento. Palazzo Chigi ieri ha battuto un durissimo comunicato che di fatto reclama una resa pressoché incondizionata dei vecchi ammi-nistratori: Letta chiede «forte discontinuità » con la passata gestione. Alitalia «è un asset strategico per il Paese» ma il cambio di prospettiva non potrà avvenire «senza condizioni». Per l’esecutivo «sono necessarie una profonda revisione del piano industriale e l’adozione nei tempi più rapidi del nuovo piano da parte dei nuovi organi societari. Solo così – prosegue Palazzo Chigi – si potranno garantire alla società prospettive concrete di sviluppo ed integrazione in un network globale».
Parole dure che non lasciano molta scelta al vertice della compagnia. Se il destino del presidente Roberto Colaninno potrebbe essere già segnato (la sua poltrona andrebbe ad un garante italiano nominato, probabilmente, dal nuovo socio pubblico) resta appeso a un filo quello di Gabriele Del Torchio. L’ad, che vanta ottimi rapporti con il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, potrebbe prendere atto dell’accelerazione impressa da Letta verso «un nuovo piano industriale» e trarne le conseguenze. Ma la partita resta aperta. Il nodo è quello del piano industriale presentato da Del Torchio poco prima dell’estate.
Sulla ristrutturazione di Alitalia, e del possibile taglio di posti di lavoro, per il momento non si parla ma è chiaro che l’intervento del governo ha ridotto le chance dei francesi e il loro progetto di riduzione della forza lavoro di 2.100 persone. Al momento Mistral Air è la carta da giocare per un travaso di circa 500 dipendenti tra le compagnie. Il futuro di Alitalia passa poi per una nuova definizione della sua missione: più collegamenti di medio e lungo raggio e revisione di quelli interni. Per ora però il premier si gode lo scampato pericolo e il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi sintetizza il clima con un liberatorio «ce l’abbiamo fatta». E svaniscono anche i fantasmi del default dalle teste dei lavoratori e del sindacato che compatto, dai piloti di Anpac a Cgil, Cisl, Uil e Ugl, plaudono al salvataggio.


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