“Sono il vostro Capitano, basta inciuci”

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 E INVECE nella notte fiorentina prende l’aria di quei cicloni dal nome femminile che spazzano intere regioni. Man mano che arrivano i dati sull’affluenza e le percentuali nei quartier generale di Renzi, in via Martelli accanto al Duomo, e poi nel teatro tenda dell’Obihall, si sparge un clima misto di euforia e terrore. «Ma è proprio vero? » si chiedono i venti fedelissimi l’un l’altro, increduli. La Mattea, la Leopolda, come la vogliamo chiamare, ha spazzato via in un giorno la classe dirigente di sinistra di vent’anni e l’intera seconda repubblica.
Da oggi comincia l’era di Matteo Renzi, che può durare pochi mesi o i prossimi vent’anni. Diciamo che in pochi mesi si capirà se potrà durare un ventennio. Già così, è qualcosa di mai visto, un’autentica rivoluzione. Renzi è più giovane di Tony Blair o di Bettino Craxi, per abbassare il tiro, quando presero in mano il Labour e i socialisti italiani, più piccolo di Felipe Gonzales premier spagnolo, ha la metà degli anni del suo rivale di domani, Berlusconi. Uno di 38 anni che diventa il personaggio centrale della vita politica di una grande democrazia, in qualsiasi epoca, è un evento storico. Nell’Italia delle eterne gerontocrazie è un miracolo.
L’incredulità degli stessi pretoriani di Renzi, amici, collaboratori, qualche assessore, i deputati Boschi, Bonifazi, Nardella, è reale. Tanto più che per buona parte della giornata erano arrivate notizie inquietanti, segnalazioni imbufalite di sostenitori allontanati o depistati dai seggi. Il caso più clamoroso è quello di Dario Franceschini, ex segretario del partito e ministro in carica, non
riconosciuto al seggio di casa, a Ferrara, ma se ne possono raccontare a centinaia di piccole o grandi porcate dell’apparato. Per ore e ore lo staff raccoglie i casi, in vista di possibili ricorsi, poi arriva il risultato reale e i fogli volano per aria come coriandoli festosi. Lui, il vincitore, è stato l’unico a non perdere mai la testa. Con una calma tanto olimpica quanto esibita, Matteo non sposta di una virgola gli impegni di una domenica da italiano normale. Alle 10 va a votare al seggio, con un piccolo show, subito dopo corre al campo di calcio dove si esibisce il figlio di 11 anni, Francesco, alle 12,30 si blinda in salotto per seguire Roma-Fiorentina, con tanto di sciarpa viola al collo. Nel pomeriggio lima il discorso della vittoria e telefona ai parenti, a cominciare da papà Tiziano, giustamente in pensiero. In tre ore arrivano una decina di chiamate dalla stampa di mezzo mondo,
Washington Poste Le Monde, Financial Timese Frankfurter,
e a tutti risponde di no. Alle 18 è puntuale al rito dell’accensione dell’albero
di Natale in piazza del Duomo, poi passa dal comitato di via Martelli, a tranquillizzare la truppa che è sull’orlo di una crisi di nervi.
Con Renzi non si capisce mai se sei davanti a un genio o a un pazzo. Uno che a meno di quarant’anni ha tanta fretta di diventare segretario del Pd e subito dopo presidente del consiglio italiano, due missioni impossibili, presenta ai comuni mortali un tratto marziano. Almeno la prima carica, quella per cui è stato eletto oggi, la ricoprirà poco e nulla. Go-
vernare il Pd, come direbbe quel tale, non è difficile: è inutile. Chi vi ha provato in questi anni non si è mai più ripreso. L’opinione generale, per quanto non ufficiale, della corte renziana è che il capo andrà a Roma un lunedì a settimana, a cominciare da questo. Per il resto viaggerà fra Firenze e il resto d’Italia per preparare la campagna elettorale di primavera. Se vi erano dubbi, da oggi non ne è rimasto uno. Il plebiscito a Renzi è soprattutto un voto contro. Contro la nomenklatura del centrosinistra,
che dopo vent’anni di errori e complicità col berlusconismo, non è stata soltanto liquidata, ma umiliata. Il 18 per cento a Gianni Cuperlo, aldilà della qualità personale del personaggio, significa che per l’uomo di D’Alema, Fioroni e compagnia non ha votato nemmeno l’apparato. L’80 e rotti per cento del popolo di sinistra, fra Renzi e Civati, non vede l’ora di rottamare senza incentivi il vecchio gruppo dirigente. Cosa che il sindaco di Firenze mette subito in chiaro: «Oggi non è la fine della sinistra, è la fine di un gruppo dirigente della sinistra».
Per esteso, la sfiducia si trasmette anche al governo delle larghe o piccole intese, che della nomenklatura è il regalo finale. Se pure Renzi avesse avuto un piano B, più morbido nei confronti del governo, e non sembra davvero averlo mai avuto, non potrebbe in ogni caso metterlo in pratica. Il mandato ricevuto dagli elettori del Pd è chiaro e inequivocabile. Deve andare al più presto alla partita finale e chiudere la stagione della seconda repubblica, oppure perire, tertium non datur. Lo sa anche lui: «Non ci sono più alibi. Non possiamo aspettare che arrivi qualcun’altro a lamentarsi di noi».
Non deve neppure farlo cadere Renzi, il governo, basta lasciar fare alla strana alleanza Grillo-Berlusconi. E lui pensando a questa partita promette: «Mi avete dato la fascia di capitano, io non farò passare giorno senza lottare su ogni pallone. E i teorici dell’inciucio non brindino: vi è andata male».
Riuscirà nell’impresa il nostro eroe? Anni fa abbiamo conosciuto un ragazzo appena trentenne, presidente della provincia di Firenze, un ente inutile che lui stesso oggi vuole abolire. Avrebbe dovuto essere un incontro di pochi minuti, ma Renzi riuscì ad affascinare il cronista per tre ore illustrando le meraviglie del recupero della Galleria delle Carrozze, un ex garage trasformato in spazio espositivo. Non avevo mai visto un venditore tanto bravo dai tempi del primo Berlusconi. E neppure un politico tanto fortunato. Qualche tempo più tardi diventò sindaco di Firenze vincendo le primarie della sinistra per 400 voti, l’equivalente di un caseggiato, grazie alla demenziale trovata del partito di candidare un dalemiano e un veltroniano. Ed eccolo, ora è sul palco dell’Obihall, a ringraziare la moglie Agnese («e lei sa il perché») e a tenere il suo discorso obamiano davanti alle telecamere del pianeta, alla grande stampa internazionale che l’ha definito la giovane speranza della vecchia Europa, in un clima da convention americana. «Debbo anzitutto dire grazie a molte persone…». Uno così può arrivare davvero ovunque. E come dice lui per chiudere, «il bello deve ancora venire».


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