Vi racconto l’America nera ecco perché esplode Ferguson

Vi racconto l’America nera ecco perché esplode Ferguson

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SONO CRESCIUTA in un posto dove tutti quelli che conoscevo, tranne una o due eccezioni, erano neri: mia madre e suo marito, i loro amici, i miei fratelli, i molti altri figli che il marito di mia madre aveva avuto da molte altre donne, i molti altri figli che il mio stesso padre aveva avuto con altre donne, i miei amici, uno dei due sacerdoti a capo della nostra chiesa, i miei insegnanti, i dottori che vedevo quando avevo bisogno di vederne uno, le infermiere che assistevano i dottori nei loro studi o in clinica, la donna obeah ( sacerdotessa vudù, ndt) di mia madre, il droghiere, il merciaio, la signora del mercato che vendeva gli ortaggi di mia madre, il macellaio, i due uomini che prendevano il pesce che mangiavamo a cena tutte le sere durante la settimana, l’uomo addetto allo svuotamento notturno che veniva tutti i mercoledì a mezzanotte per raccogliere il contenuto della tinozza nella nostra latrina, tutti i poliziotti che vedevo nelle strade, i magistrati e i giudici in tribunale, i criminali che gli stavano di fronte, i secondini delle prigioni in cui sarebbero stati mandati; tranne una o due eccezioni, nel mondo a me più vicino e che mi ha formata erano tutti neri, ossia, principalmente di discendenza africana.
Come questo fosse possibile non era certo un mistero per me, è una realtà così antica: conoscevo molto bene la storia della diciassettesima isola più grande del mondo (l’Inghilterra), fino all’età di diciassette anni era l’unica cosa che conoscevo molto bene. Di tutti i delinquenti e avventurieri europei nel mondo dopo il 1492, gli inglesi (per il mio personale e triste obiettivo escluderò nello specifico scozzesi, gallesi e irlandesi) erano quelli che erano riusciti più di chiunque altro ad assoggettare intere popolazioni e la terra in cui vivevano.
Dickens o in una poesia di Wordsworth, una volta chiuse le pagine del libro, loro rimanevano dentro. Non dovevamo mai fare i conti con la loro presenza reale, la loro quotidianità, con i loro problemi di capelli, di figli, di genitori, o anche solo di doversi alzare tutti i giorni; non ci capitava mai di pensare ai loro desideri o di considerare come potevano vederci. In realtà lo sapevamo come ci vedevano, ma non dovevamo pensarci ogni giorno, ogni volta che uscivamo. Quello è il mondo in cui sono cresciuta e ho vissuto fino ai sedici anni. E poi, fra la metà e la fine degli anni Sessanta, sono venuta in America. Martin Luther King stava per essere assassinato.
Ho sentito parlare di Martin Luther King per la prima volta quanto avevo circa nove anni e vivevo con la famiglia di mia madre sull’isola di Dominica. Andavo a scuola e durante l’ora di lettura, da un numero di un settimanale americano di attualità, l’insegnante ci leggeva delle brutalità che lui, MLK, aveva subito nel Sud degli Stati Uniti alla ricerca del diritto di cittadinanza pieno e paritario per i cittadini neri d’America. Sedevamo all’ombra di un tamarindo (un albero nativo dell’India, molto amato nei Caraibi di lingua inglese come albero da ombra) e noi bambini restavamo ammutoliti di fronte alla descrizione del comportamento dei bianchi. Quel comportamento si adattava perfettamente alla descrizione di uno stato da cui dicevano di averci salvati: uno stato di barbarie. Non aiutava che questi bianchi vivessero in luoghi dai nomi strani: Mississippi e Alabama. I selvaggi vivevano in luoghi con nomi del genere. Molto tempo prima, ci venivamo noi da luoghi con nomi del genere. Ciò che ci aveva trasformato in persone che non sarebbero più state selvagge, era stata la presenza della Bibbia. Su mio suggerimento, la nostra classe di alunni di nove anni decise che avremmo dovuto spedire Bibbie ai bianchi dell’Alabama e del Mississippi. Ed ecco una cosa buffa a proposito del luogo in cui per la prima volta avevo sentito parlare di Martin Luther King: il villaggio si chiamava Massacre, ma era pronunciato alla francese: mas sàc. Era stato chiamato così, “Massacro”, perché uno dei primi coloni di Antigua, un uomo di nome Philip Warner, aveva dato la caccia al suo fratellastro indo-caraibico Indian Warner e lo aveva ucciso non molto distante dal luogo in cui sedevamo ad ascoltare per la prima volta la storia di Martin Luther King. Indian Warner aveva guidato delle incursioni contro i coloni inglesi che stavano espropriando la sua tribù dalle loro terre ancestrali, è vero, ma ciò che aveva fatto particolarmente infuriare Philip, era il fatto che il fratello fosse un selvaggio.
Gli immigrati neri: un tempo sono stata una di loro. Non lo sono più. Sono una nera americana, ma anche una nera afroamericana. Sono una cittadina americana. E sono perfino una cittadina nera afroamericana di enorme successo. Ma la questione del successo non mi eccita particolarmente. Perché sono nera e sono afroamericana. Questa esperienza di crescere in un mondo di neri mi ha lasciato un segno profondo, talmente profondo che spesso non me ne rendo conto: penso che chiunque sia nero. Nella mia immaginazione, dove risiedo il più delle volte e dove abito da sola, guardo fuori dalla finestra e tutti quelli che vedo sono neri, cioè assomigliano alle persone che vedevo da bambina. Esco e questa impressione è ancora dentro di me: tutti quelli che vedo sono neri, come le persone che conoscevo quando questo mondo mi stava ancora forgiando. Poi accade qualcosa, e la persona che credevo fosse nera ma che in realtà non è nera, mi fa sapere che non lo è. Non è una cosa esplicita o evidente, ma è come se avesse schioccato le dita per scuotermi dalla mia delusione: non è nera.
Quando arrivai in America per la prima volta, rimasi perplessa del grande entusiasmo degli afroamericani nei confronti dell’integrazione. Pensavo fra me: perché volete stare con persone che non vogliono stare con voi? Questa è la linea di pensiero che trova dimora nel separatismo nero e non sorprende vedere che è stato inventato quasi esclusivamente da persone (Marcus Garvey: Giamaica; Stokely Carmichael: Trinidad; Malcolm X: sua madre nacque a Grenada) che hanno radici di vario genere in società a maggioranza nere. Poi accadde questo fatto: quando avevo circa ventiquattro anni feci domanda di lavoro per una rivista di moda per giovani donne, un lavoro per cui ero qualificata come chiunque. Feci il colloquio e tutto, poi venni scartata. Raccontai del rifiuto a un amico, molto sbrigativamente, e lui, senza battere ciglio, mi disse oh, non lo sai, loro non assumono ragazze nere.
La stranezza della questione razziale in America sarebbe anche divertente se avesse luogo su un altro pianeta o in un teatro, dove poterla vedere allo spettacolo serale domeniche escluse e ai matinée due volte a settimana, o come una lunga serie tv con sviluppi della trama che includano la negazione del diritto di voto alla gente, l’uccisione di ragazzi neri disarmati per non avere fatto altro che respirare, trasformando in reato tutto ciò che fanno e indossano, prima che diventi parte di una pubblicità televisiva. Sarebbe divertente se potesse essere a episodi, trasmessa a puntate e se si potesse spegnere quando diventa pericolosa, noiosa o stupida e la sua inutilità tanto intollerabile e vergognosa da rifiutarne la visione. Ma la stranezza della questione razziale in America in realtà è strana perché non finisce. Trova nuovi modi di animarsi, di riorganizzare i suoi contorni, i suoi contenuti, la sua forma e la sua sostanza.
La profonda irrazionalità di tutto questo non può che fare impazzire, se ci si riflette con attenzione, ma qui c’è un altro problema: non hai bisogno di riflettere con attenzione se sei tu l’autore del razzismo. Il poliziotto che il 9 agosto 2014 ha ucciso con tanta facilità il bellissimo e giovane Michael Brown a Ferguson, Missouri, ora deve essere piuttosto sorpreso della sua infamia mondiale. Senza dubbio pensa di essere vittima di un principio discriminante, perché uccidere uno come il giovane Brown è una cosa comune e viene fatta di continuo e non provoca una grinza nell’ordine generale delle cose.
Mio figlio è nero. È nato nel Vermont e ci vive da quasi tutta la vita. Il Vermont è considerato uno degli stati più bianchi degli Stati Uniti, ha pochissimi neri. In effetti quando i miei figli erano piccoli, per lunghi periodi di tempo, l’unica persona nera che vedevano era la loro eccentrica madre. Non c’è dubbio che questo abbia influenzato il modo in cui vedono i neri (perché in America, anche se tu stesso sei nero, vedi persone nere e vedi persone bianche, nessuno è una persona e basta). Proprio l’altro giorno stava entrando nella città di Brattleboro, Vermont. Il limite di velocità è cambiato di colpo da 55 miglia all’ora a 35. C’era un’auto davanti a lui e un’auto subito dietro. Tutte e tre stavano superando il limite. Un poliziotto di pattuglia nella zona che rilevava la velocità l’ha fermato per fargli la multa. Il poliziotto gli ha detto che delle tre auto la sua era quella che stava andando più veloce: l’auto davanti andava a 53, quella dietro a 51, lui andava a 55 miglia all’ora. C’è bisogno di aggiungere che gli altri due conducenti non erano neri?

(Traduzione di Laura Pagliara) Copyright 2-014 Jamaica Kincaid All rights reserved



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