Cimitero Mediterraneo

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 CATANIA I sommozzatori che scesero sul fondo a dare un’occhiata risalirono con le lacrime agli occhi, scioccati. Giù, nei resti di quella carretta capovolta, c’erano i corpi di uomini e donne che sembravano aspettare chi li liberasse, imprigionati nella stiva e in piedi, a fluttuare. I capelli delle donne mossi dalle correnti, come alghe. Era il naufragio del 3 ottobre 2013, 368 morti.
Chissà se il ragazzino che ieri all’alba galleggiava a faccia in giù nella nafta aveva mai sentito parlare di quella strage… Chissà se sapeva a quali rischi andava incontro salendo sul barcone… L’hanno recuperato per primo e l’hanno messo sul ponte della Gregoretti, la nave della Guardia costiera. Nel giro di poche ore accanto a lui altri 23 sacchi, ciascuno una vita perduta. Ma di sacchi, in quell’angolo di Mediterraneo, ieri ne sarebbero serviti 700. Settecento morti che quasi certamente nessuno ripescherà più dalle acque agitate al largo delle coste libiche. La strage più strage di sempre. Nelle comunicazioni interne dei soccorritori, accanto alla parola nazionalità c’è un generico «Africa subsahariana» e la sola cosa che si sa per certa è che uno dei sopravvissuti è eritreo. «Prima cerchiamo di recuperare il recuperabile, poi ci occupiamo del resto» ripetono i coordinatori delle ricerche.
«Il recuperabile», cioè i morti. Che anche stavolta galleggiavano fra rottami, vestiti, sacchetti di plastica, scarpe, nafta… Lo spettacolo spettrale dei corpi senza vita nell’acqua non cambia mai. Cambiano il luogo, la profondità, il numero delle vittime.
Il primo naufragio dai grandi numeri avvenne la notte di Natale del 1996 nel Canale di Sicilia. Una barca carica di indiani, pachistani e cingalesi affondò ma di quella tragedia, 283 morti, nessuno seppe nulla per sei anni.
Furono naufragi-fantasma anche quelli (ancora oggi presunti) del 2011 nei quali, secondo stime non ufficiali, avrebbero perso la vita fra i 500 e i 700 tunisini. Secondo le loro madri, che nel 2013 fondarono un’associazione per cercarli, sarebbero partiti via mare ma mai arrivati a destinazione. Le loro storie, quindi, si conoscono soltanto dalle parole e dalle fotografie delle madri che continuano invano a cercarli.
E poi ci sono le fotografie che non hanno nome né storie. Come quelle recuperate in mare dopo il naufragio del 2013. Fu un anno nerissimo, o almeno così sembrava allora, quando tutti giurarono «mai più», dopo i 368 morti del 3 ottobre e i 250 della settimana successiva (quasi tutti eritrei). A Lampedusa nessuno potrà mai dimenticare la lunghissima fila di bare allineate sul molo: per riconoscerle un numero e, nei casi più fortunati, un nome. Erano sembrati tanti i 13 morti di Scicli di pochi giorni prima (30 settembre) ma quei numeri d’inizio ottobre erano spaventosi. Eppure più o meno la metà della cifra di ieri.
Persone. Donne, uomini e bambini diventati numeri, appunto, senza nemmeno la dignità di un nome. Spesso morti a un passo dalla salvezza: per aver allungato le braccia in troppi verso una nave che li voleva salvare sbilanciando il loro barcone oppure per aver scambiato per terra ferma una secca. È successo tante volte: la carretta con cui arrivano si incastra quando non c’è luce per vedere la costa, loro scendono e finiscono nell’acqua alta morendo annegati perché quasi sempre non sanno nuotare.
Forse è morta proprio così anche Samia Yusuf Omar, atleta somala di Pechino 2008 partita per l’Italia e mai arrivata. Di quanti modi si può morire in mezzo al Mediterraneo su una barca carica di disperati, sono pieni i verbali dei sopravvissuti. Che raccontano di gente asfissiata nella stiva, di donne incinte buttate in acqua, di motori in avaria e barche alla deriva. Di umanità varia in balìa delle onde.
L’Unhcr fa sapere che nel 2014 sono morti più di 3.000 migranti e che quest’anno, bilancio di ieri compreso, dovremmo già essere oltre i 1.500. Persone, appunto. Prima che diventino numeri.
Giusi Fasano


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