Orhan Pamuk: “Arresti e censura in Turchia non c’è una vera democrazia”
Nel suo studio a Istanbul con il tavolo pieno di penne e carte, e davanti agli occhi una grande vetrata sullo Stretto sul Bosforo, Orhan Pamuk è furibondo. «L’arresto di professori universitari che hanno firmato una petizione per la pace con i curdi sta gravemente danneggiando la democrazia già limitata della Turchia. Siglare e scrivere appelli sono semplicemente atti elementari di ogni democrazia!». Il premio Nobel per la Letteratura si ferma un attimo, poi aggiunge: «Non posso pensare a una democrazia nella quale ai docenti non sia permesso di esprimere le loro opinioni. Andarli a prendere in casa, o metterli sotto custodia o arrestarli solo perché hanno firmato una petizione su cui il governo è in disaccordo, tutto ciò è inaccettabile».
Ma perché accade questo, secondo lei? «In Turchia abbiamo solo una democrazia elettorale, ma non una democrazia istituzionale che mostri rispetto per la libertà di espressione, la divisione dei poteri e l’autonomia delle università. Un Paese nel quale i professori sono forzati a ripetere le decisioni del governo non è una democrazia piena persino se ci sono state elezioni libere».
Parole durissime, e Pamuk è un fiume in piena. Presto il più importante romanziere della Turchia sarà in Germania. Il cantore di una città che oggi appare ferita per l’attentato della settimana scorsa a Piazza Sultanahmet e per l’arresto qualche giorno dopo di decine di accademici favorevoli alla pace nella regione curda, si prepara ad andare nel Paese europeo sotto shock per la strage dei suoi turisti. A febbraio Pamuk presenterà infatti il suo ultimo romanzo a Stoccarda, al Forum turco-tedesco. Un incontro programmato che che però ora assume un sapore diverso dal semplice incontro di letteratura, e diventa un appuntamento importante fra la Germania e la Turchia, sull’onda dell’imbarazzo per i 10 viaggiatori saltati in aria con il kamikaze del Califfato nero nel luogo simbolo dell’Impero Ottomano e del turismo in Turchia. Così il grande autore di “Istanbul”, l’autobiografia per cui ottenne il massimo riconoscimento internazionale, si troverà inevitabilmente ad affrontare le molte domande dei tedeschi sull’argomento. A Roma il mese scorso era venuto per parlare di “La stranezza che ho nella testa” (Einaudi), il libro che in Italia ci guarda da tutte le vetrine con la sua copertina colorata (il nome dei colori è un segno distintivo di tanti suoi libri), e si era detto «molto dispiaciuto per quello che sta accadendo in Turchia».
Dice: «Sono i reporter a essere sotto tiro, così come noi autori di libri lo siamo stati una decina di anni fa». Il suo pensiero va subito «al mio amico Can Dundar», il direttore di Cumhuriyet, storico quotidiano indipendente che guarda all’area repubblicana e del centro sinistra, che ha inviato al nostro quotidiano una lettera dal carcere pubblicata giovedì. Dundar si trova nella prigione di Silivri, a Istanbul, assieme al capo della redazione di Ankara, per aver pubblicato nei mesi scorsi uno scoop sui camion pieni di armi diretti verso il confine con la Siria protetti dai servizi segreti turchi. Pamuk è rattristato da questa vicenda e preoccupato per «i giornalisti che sono del mirino del governo e vengono minacciati, picchiati e arrestati».
L’attualità politica continua a tenere la Turchia sotto i riflettori. Lo scrittore premiato con il Nobel esattamente 10 anni fa, originario di una famiglia della buona borghesia di Istanbul, è un europeista convinto e ama il proprio Paese. Gli dispiace perciò, parlando dei profughi che l’attraversano per fuggire dalle zone di guerra, «che l’Europa veda la Turchia solo come un filtro agli indesiderabili ».
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