L’associazionismo e la sfida dello spazio pubblico europeo

L’associazionismo e la sfida dello spazio pubblico europeo

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Intervista a Paolo Beni, già presidente nazionale ARCI,  a cura di Susanna Ronconi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)

Il centrodestra l’aveva trattato strumentalmente, per tappare i buchi di uno Stato sociale in via di estinzione e privatizzazione, il governo tecnico l’ha semplicemente ignorato, arrivando a tagliare osservatori, tavoli, risorse e benefici fiscali come fossero nulla, mentre si trattava dell’ossatura stessa della partecipazione democratica. L’associazionismo e il Terzo settore aspettano ancora che si comprenda e si valorizzi il loro ruolo in una società complessa e in una democrazia moderna. Le tante candidature di esponenti del Terzo settore alle ultime elezioni politiche parlano di questa doppia realtà: impegno e responsabilità, da un lato, ma anche necessità di “esserci” per riqualificare un rapporto con la politica che è andato sfilacciandosi e impoverendosi, “tirato” tra collateralismo e ininfluenza. Cercare di contare ed essere portavoce del sociale è una scelta che ha compiuto anche Paolo Beni, dal 2004 presidente nazionale dell’ARCI e oggi parlamentare. Con lui ragioniamo sui tanti fronti aperti sulla strada delle associazioni e del non profit, a cominciare dalla consapevolezza dell’urgenza della conquista di nuovi spazi pubblici di attività, alleanza e mobilitazione, in Italia e soprattutto in Europa: ricucire, nelle differenze, i frammenti di un mondo potenzialmente portatore di alternative ma oggi ancora inchiodato a logiche settoriali e nazionali.

 

Redazione Diritti Globali: Ti sei candidato, con successo, per il PD alle elezioni politiche del febbraio 2013, una decisione che certo risponde a una scelta personale di impegno e responsabilità, ma anche un fatto politico, se si considera l’elevato numero di candidature venute in quest’occasione dal Terzo settore. Sondaggi effettuati nel non profit hanno rivelato come per molte e molti avere “propri” candidati sia un elemento di fiducia e speranza nel cambiamento. Un indicatore, questo, della crisi che da tempo attraversa il rapporto tra associazionismo e politica, che se fosse attivo e vitale forse non dovrebbe aver bisogno di una presenza così diretta. È un po’ come se i candidati del Terzo settore dicessero «Facciamo da noi, è meglio». D’altro canto, le candidature si sono disseminate in diverse direzioni, fatto positivo quanto a pluralismo, ma anche che solleva non pochi interrogativi, stante che le agende delle diverse forze politiche differiscono assai per molti aspetti che riguardano sociale, cultura, lavoro e diritti. Come si ridisegna alla luce di questo passaggio il rapporto associazionismo-politica? Si può parlare di una “lobby democratica” o c’è di più? E in che relazione sta, secondo te, questo passaggio con la domanda di partecipazione e cambiamento dal basso, ben evidenziata dal successo del Movimento 5 Stelle?

Paolo Beni: Senza dubbio il senso della mia candidatura, come di altri esponenti autorevoli del Terzo settore, va oltre la dimensione della scelta individuale e assume un significato politico per il mondo dell’associazionismo. Con queste elezioni assistiamo infatti all’ingresso in Parlamento – in partiti diversi – di esponenti del Terzo settore e dei movimenti sociali in proporzioni finora inedite, non solo nel numero ma anche nella rappresentatività ed autorevolezza delle figure coinvolte. Io penso che tutto ciò testimoni di una nuova maturità politica da parte delle organizzazioni sociali, che scelgono di mettersi in gioco e assumersi nuove responsabilità di fronte alla gravità della crisi economica e sociale, culturale, morale che attraversa il paese. Vediamo la debolezza di una politica che si ritenesse autosufficiente, siamo convinti che nessuno possa farcela da solo ma che diversi attori – istituzioni, partiti, organizzazioni sociali – debbano concorrere a un grande sforzo comune.

L’associazionismo può dare un contributo importante, grazie alla sua vocazione civica e solidale, alla capacità di essere motore di partecipazione, tessere legami, leggere i bisogni e costruire risposte, promuovere la visione della società e dell’economia dei beni comuni. Può aiutare le persone a recuperare l’idea che la politica è utile per cambiare le cose, a scegliere di mettersi in gioco. Ma c’è bisogno che questo ruolo venga riconosciuto, sostenuto e tutelato sul piano legislativo, e perciò è bene che sia adeguatamente rappresentato anche nelle sedi istituzionali. Questo ragionamento è condiviso dagli esponenti del Terzo settore che si sono candidati, pur se in forze politiche diverse. Le differenze ci sono, altrimenti non saremmo stati in liste diverse, ma sono forti anche i valori e gli obbiettivi condivisi, e non vedo difficile ipotizzare future collaborazioni in Parlamento.

Non basterà certo questo a risolvere la crisi della rappresentanza e a soddisfare la domanda di partecipazione e di cambiamento dal basso che il voto ha chiaramente espresso premiando il Movimento 5 Stelle e penalizzando i partiti tradizionali. Ma si è aperto uno spazio nei partiti e valeva la pena sperimentarlo, cimentarci in una sfida inedita, nella convinzione di poter offrire un contributo originale al rinnovamento della politica dando voce e rappresentanza anche nelle sedi istituzionali ai temi e ai soggetti organizzati della militanza sociale. Una sperimentazione che potrà avere successo solo se associazioni e movimenti continueranno a esercitare in piena autonomia la loro funzione di animazione sociale e culturale e la loro iniziativa politica nei territori.

 RDG: Fin da subito, a inizio 2012, il governo di Mario Monti aveva mostrato tutte le sue ambiguità verso i temi sollevati dal Terzo settore, con l’imperativo della spesa e del bilancio a far da padrone delle scelte politiche. A esperienza conclusa, restano sul terreno non poche macerie: abolizione di Agenzia del Terzo settore, Osservatorio per il volontariato, Comitato per i minori stranieri, Consulta per i problemi degli stranieri, Consulta nazionale per il servizio civile, Commissione di indagine sull’esclusione sociale, e via elencando. Tutti luoghi non solo di monitoraggio e conoscenza dei fenomeni, ma anche per (almeno potenziali) processi partecipativi e magari negoziali che vengono meno. Sul piano fiscale, poi, la rinuncia ad aumentare l’IVA per le cooperative sociali è solo slittata ma non scongiurata, e i tagli drastici ai diversi Fondi sociali toccano profondamente il Terzo settore, che del welfare locale è pilastro e tenuta. Ora, cambia il governo, ma quali che siano colori e decisioni in materia sociale e culturale, intanto la logica del fiscal compact si è saldamente installata nella nostra Costituzione, e funge da ipoteca vincolante. Quali spazi di inversione di rotta vedi, in questa situazione?

PB: La stagione del governo Monti ha fatto registrare una pesante battuta d’arresto nelle relazioni fra le istituzioni e i soggetti sociali che attraverso la rappresentanza unitaria del Forum del Terzo settore avanzavano proposte per concorrere alle scelte sul futuro del Paese. Il Terzo settore coinvolge oggi in Italia migliaia di organizzazioni e milioni di cittadini impegnati in attività di pubblico interesse, dai servizi sociali a cultura, sport, tutela dell’ambiente, promozione della socialità e della partecipazione civica. Una risorsa che le istituzioni pubbliche dovrebbero riconoscere e incoraggiare, e che invece il governo Monti ha del tutto ignorato.

Se nella fase precedente avevamo contestato l’approccio del governo Berlusconi, portatore della visione di un Terzo settore strumentale e subalterno al potere di turno, utile portatore d’acqua per il modello di welfare residuale e caritatevole propugnato dal ministro Maurizio Sacconi, in questo ultimo anno abbiamo dovuto prendere atto che il governo Monti neppure l’aveva un’idea del Terzo settore. Trincerato dietro lo schermo del suo carattere tecnico, ha visto i soggetti della cittadinanza attiva come un inutile intralcio, ha disconosciuto il ruolo dei corpi intermedi adottando un profilo autoritario che rifiutava la concertazione con le parti sociali e ignorava il mondo non profit. Significativa è stata la vicenda della soppressione dell’Agenzia del Terzo settore, che ci ha privato di un interlocutore istituzionale capace di svolgere un prezioso ruolo di terzietà nel rapporto fra non profit e pubblica amministrazione. Pochi mesi dopo, nell’ambito delle misure sulla spending review, l’azzeramento degli Osservatori di associazionismo e volontariato e di molti altri organismi collegiali istituiti presso i ministeri è stata l’ulteriore conferma della volontà di cancellare ogni sede di confronto e collaborazione coi soggetti del Terzo settore.

Pensare di ridurre i costi della pubblica amministrazione tagliando proprio sugli strumenti della partecipazione e della rappresentanza sociale è un errore gravissimo, destinato a ripercuotersi con effetti molto negativi sulla coesione sociale e sulla qualità della democrazia. L’unico interesse del governo nei confronti di questo mondo è parso essere quello di provare a far cassa rimettendone in discussione le agevolazioni fiscali, con un’azione degli enti preposti al controllo spesso arbitraria e viziata da un approccio pregiudizievole.

Per tutti questi motivi auspichiamo che la nuova legislatura segni una netta inversione di tendenza nei rapporti fra istituzioni e Terzo settore. Molte sono le questioni aperte. Anzitutto la necessità di ripristinare gli spazi di interlocuzione a suo tempo azzerati, dall’istituto dell’Agenzia per il Terzo settore, appunto, a osservatori, consulte e tavoli tematici che possono fornire un contributo concreto alla definizione delle politiche di governo. C’è poi l’esigenza di rafforzare gli strumenti di sussidiarietà fiscale, con la stabilizzazione del 5 per 1000 e il rafforzamento della deducibilità delle erogazioni liberali. C’è la questione della revisione delle agevolazioni fiscali, la necessità di definire più precisamente i criteri di commercialità o meno di alcune attività svolte dalle associazioni, e più in generale il tema dell’armonizzazione dell’intero quadro legislativo inerente il settore. Infine, provvedimenti da tempo attesi come la riforma della legge sulla cooperazione internazionale o la piena e coerente attuazione di quella sul servizio civile volontario. Le condizioni in questa legislatura ci sono, è necessario provarci.

RDG: Nel 2012, movimenti e opinione pubblica hanno sottoposto a dura critica l’Europa dell’imperativo di bilancio, delle politiche di mero contenimento della spesa e depressive, della finanza e del drenaggio scandaloso di ricchezza a favore delle grandi banche. L’ARCI ha attenzione alla dimensione europea, dimensione che investe movimenti e parole d’ordine, campagne sui diritti fino all’apertura alla dimensione euro-mediterranea che condividete con il Social Forum Mondiale di Tunisi del 2013. C’è un antieuropeismo antiliberista, ce n’è uno di ultradestra, nazionalista e razzista, c’è un europeismo critico: come pensi vada declinata la critica all’attuale assetto delle politiche comunitarie e quale ruolo può svolgere l’associazionismo italiano ed europeo? Sono sufficienti le reti e le campagne comuni o c’è bisogno di uno scatto ulteriore per fare “un’altra politica possibile” a livello UE?

PB: È sempre più evidente quanto la dimensione europea sia decisiva nel determinare le dinamiche economiche e sociali che riguardano anche il nostro Paese. L’evolversi della crisi e i suoi effetti sociali, le risposte con cui i singoli Stati vi fanno fronte sono inevitabilmente condizionati dalle scelte dell’Unione Europea e della BCE. Scelte che rispecchiano i limiti di un processo di unificazione mai compiuto sul piano politico e segnato da un pesante deficit democratico. Chi governa l’Europa non sono il Parlamento rappresentativo dei cittadini europei e neppure un vero meccanismo intergovernativo, ma i rapporti di forza imposti dai poteri finanziari.

Non c’è una politica economica e sociale europea ma solo una politica monetaria. Non c’è una strategia europea di investimento e rilancio dell’economia, ma solo rigide misure di austerità che rischiano di trascinare gli Stati membri in una spirale di insostenibilità sociale. La subalternità dei governi europei ai vincoli imposti dai mercati finanziari rischia di affossare il processo di integrazione e mettere in discussione la stessa sovranità nazionale degli Stati membri. Non è solo la morte dell’idea europeista di Altiero Spinelli, ma è anche la svendita al mercato della stessa democrazia liberale. La crisi greca è la rappresentazione più evidente di un pesante arretramento dei diritti sociali, civili e politici conquistati in decenni di storia europea. La pretesa di liberare il mercato da ogni vincolo sociale sta cancellando nei fatti quell’universalismo dei diritti che le Costituzioni democratiche del dopoguerra avevano sancito come principio irrinunciabile.

Un errore gravissimo, che rischia di produrre pericolose derive reazionarie. La protesta sociale che monta in tutta Europa di fronte al precipitare degli effetti della crisi sulle condizioni di vita delle persone può sfociare nell’antieuropeismo e alimentare la crescita di nuovi movimenti nazionalisti e xenofobi. Sindacati, forze politiche e movimenti sociali progressisti cominciano a interrogarsi su questa deriva e sulla necessità di un’alternativa. Si comincia a capire che una vera prospettiva europeista è possibile solo uscendo dal liberismo oggi imperante, in un progetto transnazionale di solidarietà e giustizia sociale, di partecipazione e controllo democratico sull’economia e la finanza. Il tema è come costruire l’Europa dei cittadini, e insieme l’economia, la società e la democrazia dei beni comuni.

Ma al tempo stesso in questi anni si è indebolito fino quasi a dissolversi lo spazio di dialogo e convergenza fra le forze che nei diversi Paesi europei lavorano per un’alternativa. Movimenti sociali, sindacati, partiti, ciascuno opera nel suo spazio nazionale, più spesso locale o tematico, e sembra non esserci la forza perché queste energie riescano a connettersi ed esprimersi col peso che potrebbero avere nella dimensione europea. Questo è il problema: ricostruire uno spazio pubblico europeo. Partendo dalla valorizzazione delle esperienze territoriali e tematiche che ci sono, ponendo le organizzazioni della società civile e le reti europee esistenti al servizio di questo processo. In questo senso si muove anche l’ARCI, agendo la dimensione europea nella sua iniziativa sui temi della legalità, della cultura, dell’ambiente, del welfare, in relazione con altri partner italiani ed europei. L’agenda europea è fitta di iniziative, promosse da soggetti anche molto diversi fra loro, che però convergono nell’intento di ricostruire una grande alleanza transnazionale dei soggetti sociali sui temi della giustizia sociale, dei beni comuni e della democrazia.

 

RDG: Temi cari all’ARCI, da sempre, la cultura e l’educazione, sono stati sottoposti nell’ultimo anno al fuoco di fila in stile fiscal compact non meno del sociale: in un Paese povero di formazione superiore, con giovani che non lavorano e non studiano, con bambini e ragazzini impoveriti e deprivati, non investire in scuola, formazione e cultura sembra il suicidio annunciato di una nazione. Eppure, si susseguono notizie di chiusura di questo o quel progetto di sostegno ai più giovani, di diffusione di iniziative culturali nei quartieri, di lotta al drop out, soprattutto al Sud, dove questo fenomeno è allarmante. C’è una doppia risposta, a questa situazione: una politica, per il cambiamento delle scelte governative in questo campo, e una di auto-organizzazione, di iniziativa sociale e associativa nei territori e nelle città, con l’autoproduzione di cultura “dal basso”. Come si declina oggi la proposta ARCI tra questi due poli, proposta politica e pratica e azione culturale?

PB: Non c’è dubbio che la crisi culturale sia una componente decisiva della crisi più generale del Paese. Sono evidenti i sintomi del deficit educativo e di istruzione, dal ridimensionamento del ruolo della scuola pubblica al divario digitale che penalizza intere fasce di popolazione anziana, all’emergere di un nuovo analfabetismo. La frammentazione delle conoscenze e la crescente difficoltà a tradurle in sapere critico producono una cultura diffusa povera di valori e significati e la banalizzazione del senso comune. Troppi giovani vivono una condizione culturale incerta e subalterna che ne determina la marginalità sociale. Affrontare questo stato di cose è un’esigenza prioritaria, perché tanto più in una fase di crisi le persone hanno bisogno di strumenti e opportunità per sapere, capire, coltivare capacità critiche, costruirsi competenze di cittadinanza.

Bisogna garantire risorse adeguate per la formazione, la scuola, l’università e la ricerca. Ma c’è anche bisogno di un generale ripensamento delle politiche per la cultura: investire nelle competenze culturali diffuse, nell’educazione permanente, contrastare il nuovo analfabetismo e il divario digitale, favorire l’accesso a consumi culturali alla portata di tutti e in tutte le fasi della vita, investire nel dialogo interculturale. Capire che la cultura non è un costo, ma un investimento nel capitale umano, nella qualità dello sviluppo e delle relazioni sociali. È parte essenziale del welfare, perché dove ci sono opportunità culturali cresce la qualità di vita e relazioni sociali, dove c’è vuoto culturale crescono emarginazione e insicurezza.

Si parla tanto di crescita economica, ma non si parla mai di sostenere le attività produttive legate alla cultura, che contano un milione e mezzo di addetti e producono il 5% del PIL; non si parla di aiutare le attività culturali del non profit, spesso le sole a offrire opportunità nei territori. Negli ultimi anni, nella generale depressione dei consumi, sono calati anche quelli culturali per effetto della riduzione delle risorse pubbliche e degli investimenti privati e delle fondazioni bancarie. La spending review ha colpito in modo pesante la tutela del patrimonio artistico e culturale, i tagli agli enti locali hanno penalizzato servizi come biblioteche, musei, occasioni didattiche nelle scuole. Tutto questo in mezzo alle carenze croniche di un settore già sofferente per l’assenza di politiche organiche, strumenti legislativi e investimenti adeguati.

È necessario tornare a investire nel sostegno pubblico al sistema cultura, e soprattutto allargarne la base partecipativa, sostenere i soggetti che operano a livello territoriale, creare opportunità nelle periferie e nei piccoli centri, incentivare con sgravi e facilitazioni l’impresa culturale non profit. L’associazionismo, con la sua tradizione di scuole popolari, laboratori di produzione culturale, esperienze di volontariato per la gestione e la fruizione del patrimonio artistico, svolge un ruolo determinante nel favorire l’accesso diffuso alle attività culturali. Per milioni di persone rappresenta l’unica possibilità di soddisfare il bisogno di esprimersi, sapere e capire, con offerte diversificate in cui ciascuno può trovare stimoli per la propria crescita personale e sociale.

 

RDG: Anche negli ultimi mesi, per esempio nelle vostre domande alla politica in occasione delle elezioni, e nelle vostre campagne, nella vostra Agenda è stato sottolineato con forza il tema dei diritti dei migranti, oggi scesi a un livello da vera emergenza, non ultimo con le decisioni prese nei confronti dei rifugiati, che dopo mesi e anni di attesa si vedono cacciati fuori da accoglienze e percorsi sociali con una mancia, se va bene, di 500 euro, e proiettati verso un futuro del tutto imprevedibile e buio. Come vi state muovendo, su questo fronte? Pensi che la nuova fase politica saprà mettere davvero all’ordine del giorno la questione della cittadinanza per i giovani immigrati nati in Italia?

PB: La conclusione del programma di accoglienza per i profughi provenienti dal Nord Africa, liquidato con una circolare alle Prefetture il 19 febbraio, è emblematica delle lacune e contraddizioni delle politiche del governo Monti sull’immigrazione. Nell’assenza di indirizzi da parte dell’esecutivo, i singoli progetti di accoglienza hanno adottato le soluzioni più disparate, anche in base ai diversi orientamenti di prefetture e questure. Chi ha fornito ai profughi un contributo d’uscita di 1.000 euro, chi di 500, chi l’ha differenziato fra i profughi che restano in Italia e quelli che si recano all’estero, chi si è limitato a invitarli a lasciare le strutture senza fornire alcun contributo. Con evidenti ingiustizie, discriminazioni e spreco di denaro pubblico. Se alla fine si è fatta un po’ di chiarezza rispetto al contributo per i percorsi di uscita, restano ancora senza risposta gli interrogativi sulla sorte di chi attende il rilascio dei documenti, sulle famiglie con minori, sulle persone accolte nei “Cara”. Domande che poniamo al ministero dell’Interno senza ottenere risposta.

Più in generale, non arretriamo nel nostro impegno sui temi dell’immigrazione. I migranti regolari in Italia sono ormai cinque milioni, una componente importante della nostra società. È evidente il fallimento delle politiche fin qui adottate in materia, condizionate da un approccio securitario e repressivo, inefficaci e lesive dei diritti e della dignità delle persone. Serve un radicale cambio di rotta, sul piano legislativo, amministrativo, culturale e della comunicazione pubblica. Va rovesciato l’approccio della Bossi-Fini, che guarda ai migranti solo come forza lavoro e non come persone col proprio percorso di vita. Va prosciugato il terreno dell’irregolarità modificando i meccanismi di ingresso che oggi di fatto producono clandestinità, introducendo la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro, prevedendo percorsi di emersione dall’irregolarità, eliminando gli ostacoli ai ricongiungimenti familiari. Bisogna chiudere la stagione del diritto speciale e l’istituto della detenzione amministrativa, abolire il reato di immigrazione clandestina, cessare gli abusi alle frontiere per i quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani, fare finalmente una legge sul diritto di asilo. Bisogna superare l’approccio che finora ha relegato l’immigrazione a questione di ordine pubblico, spostando le competenze in materia dalle questure agli enti locali e garantendo il ruolo politico di coordinamento di un ministero dell’Immigrazione.

Il grande successo della campagna “L’Italia sono anch’io” dimostra che oggi ci sono le condizioni per riformare la legge sulla cittadinanza, in particolare garantendo l’accesso alla cittadinanza italiana per tutti i bambini che nascono nel nostro Paese da genitori immigrati. È tempo di cambiare l’approccio all’idea di cittadinanza, dallo ius sanguinis allo ius soli, la cittadinanza non più status concessorio ma diritto soggettivo che si acquisisce in virtù dell’appartenenza alla comunità dove vivi, lavori, costruisci affetti e relazioni. Bisogna rafforzare i percorsi di integrazione, guardando in particolare alle seconde generazioni, al ruolo fondamentale della scuola, degli istituti del welfare locale, delle realtà dell’associazionismo e del Terzo settore. Favorire il protagonismo attivo, la partecipazione e l’autorganizzazione dei nuovi cittadini. Sostenere il lavoro culturale di incontro, conoscenza, dialogo, per contrastare i pregiudizi e creare le condizioni di un nuovo patto di convivenza.



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