Andrea Fumagalli: «Dietro la sfida sui numeri con Bruxelles un azzardo politico dei gialloverdi»

Andrea Fumagalli: «Dietro la sfida sui numeri con Bruxelles un azzardo politico dei gialloverdi»

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Legge di bilancio. Intervista all’economista, teorico del reddito di base incondizionato, che insegna all’università di Pavia. “La sfida dei Cinque Stelle e della Lega è un azzardo: scommettono sul cambio radicale nel parlamento europeo, ma il suo potere è molto limitato. Il vero potere è quello dell’Ecofin che deciderà sulla procedura d’infrazione all’Italia”.

Andrea Fumagalli, docente di economia politica all’università di Pavia, quali sono le conseguenze della procedura di infrazione all’Italia?
La bocciatura della legge di bilancio era nell’ordine delle cose, considerando le dichiarazioni dall’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def) e lo scambio di lettere con il governo. Tanto è vero che la reazione dell’oligarchia finanziaria è stata meno forte di quanto si attendeva, almeno negli ultimi giorni. L’infrazione è una scelta politica e rientra nella rigidità formale e ideologica che caratterizza l’attuale Commissione. Dopo l’approvazione dei paesi membri dell’Ue, entro due settimane, la procedura potrebbe prendere diverse forme: una multa dello 0,2% del Pil, ipotesi non così grave. Poi c’è quella molto più grave: il blocco dei fondi strutturali nei progetti in corso d’opera. È la prima volta che succede. La decisione dipenderà dall’orientamento della Commissione.

Visto dal governo, questo è un calcolo politico in vista delle elezioni europee?
Mi sembra azzardato scommettere sul cambio radicale nel parlamento europeo. Il suo potere è molto limitato. Il potere economico europeo è invece in mano all’Ecofin, il consiglio composto dai ministri delle finanze degli stati membri, il luogo che deciderà sull’infrazione. Comunque una svolta populista non è raccomandabile per il razzismo, il sovranismo, il corporativismo, la repressione che comporta, cioè l’altra faccia del governo Lega-Cinque Stelle.

Il governo stima una crescita dell’1,5% nel 2019. Perché la Commissione Ue non è d’accordo?
Le sue stime convergono con quelle di Bankitalia, Istat e Fondo Monetario. Nel 2019 l’Italia difficilmente crescerà tanto, anche alla luce dei dati sul Pil nel terzo trimestre del 2018. Ieri l’Istat ha rivisto al ribasso la stima per il 2018 all’1,1%. Nelle visioni più ottimistiche, le stime fissano una previsione intorno all’1,1% o 1,2%. Difficilmente il rapporto deficit-Pil potrà essere contenuto sotto il 2,4%. Oggi è un livello comunque inferiore al massimo stabilito dal patto di stabilità: il 3%.La Commissione stima invece che tale rapporto si collocherà al 2,9% nel 2019 e al 3,1% nel 2020. Questo giustifica la procedura di infrazione.

Il ministro dell’economia Tria sostiene che, alla base del conflitto, c’è una differenza nel calcolo della crescita. Può spiegarcelo?
Il problema è che i modelli econometrici usati dalla Commissione Ue penalizzano l’economia italiana. La stima diverge sull’«output gap», il differenziale tra il reddito potenziale (la capacità produttiva a pieno regime), e quello effettivo (ciò che il paese è in grado di produrre). L’Ue calcola la capacità occupazionale individuando un tasso naturale di disoccupazione tale che non fa crescere i salari. Se per un certo periodo i salari sono stabili allora il tasso di disoccupazione è naturale e ci si avvicina al pieno impiego. Secondo l’Ue ci troviamo in una situazione simile, pur avendo una disoccupazione al 10%. Questo significa che non ci sono margini di crescita. Per l’Fmi, invece, come ha scritto Roberto Romano, il tasso di disoccupazione è superiore a quello naturale. Questo significa che c’è una capacità produttiva non utilizzata e una crescita possibile dell’1% del Pil, 18 miliardi di euro in flessibilità sull’uso del debito. La commissione Ue lo nega.

Su questo si gioca la partita?
Sì, invece si parla della pregiudiziale ideologica secondo la quale il rapporto tra debito e Pil deve diminuire e mai aumentare anche se ci sarebbero i margini per farlo. Il pregiudizio obbliga i governi ad adottare solo politiche di offerta e non di sostegno alla domanda. La questione vera quindi non è il rischio di non mantenere il 2,4% nel rapporto tra deficit e Pil, ma quali politiche alla domanda sono efficaci.

Il sussidio di povertà detto «reddito di cittadinanza» lo è?
Solo molto parzialmente, e comunque non è sufficiente. È una misura che tende più al controllo della forza lavoro, e alla coazione al lavoro. E non migliora di molto la distribuzione del reddito.

Di Maio dice che si farà… 
È un azzardo. Non si conoscono ancora i decreti attuativi della misura, è tutto molto nebuloso.

Per l’Istat produrrà un effetto positivo dello 0,2% sul Pil che sarà annullato dall’inflazione. Sarà così?
È un effetto una tantum. È una stima che trovo discutibile. I prezzi sono stagnanti o in diminuzione in Italia e in Europa, al punto che la Bce sta pensando di continuare la politica monetaria espansiva.

E la «quota 100»?
Il rischio è che non ci sia una sostituzione tra lavoratori anziani e giovani. Le imprese tenderanno a non sostituire i pensionati o lo faranno con i precari. Non pagheranno il salario a chi va in pensione, lo farà l’Inps, cioè tutti noi. L’effetto sostituzione è tra salario e pensione pubblica. Sulla domanda l’effetto sarà molto limitato. Così come sono strutturate queste politiche «espansive» rischiano di non arrivare all’1,5% preventivato. Per questo sono molto scettico.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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1 comment

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  1. Massimo capri
    Massimo capri 22 Novembre, 2018, 22:24

    Secondo me non si può rinunciare al REDDITO DI CITTADINANZA..

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