Dai Big data alla predittività. Il capitalismo della sorveglianza in nome del profitto

Dai Big data alla predittività. Il capitalismo della sorveglianza in nome del profitto

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A proposito del libro di Soshana Zuboff sul capitalismo della sorveglianza. L’economista e docente ad Harvard, cura un volume accademico eppure non solo per addetti ai lavori

Un testo ponderoso, al tempo stesso una controstoria dello sviluppo recente del capitalismo a partire dal ruolo sempre più rilevante che hanno le piattaforme digitali nel regime di accumulazione e una analisi critica della svolta impressa da imprese globali come Google, Apple, Amazon, Facebook e Microsoft nell’affermarsi dei Big Data come settore strategico e centrale nella produzione della ricchezza. Un libro che ha avuto, come scrive l’autrice, l’economista e docente ad Harvard Soshana Zuboff, una gestazione più che decennale e che ha tutte le caratteristiche del libro accademico anglosassone.

Grandi quantità di dati, una particolare attenzione alle fonti usate, che non disdegnano interviste a manager e una analisi puntigliosa dei testi ufficiali delle imprese considerate il simbolo di The Age of Surveillance Capitalism, come recita il titolo del volume (Profile Books, pp. 683, 25 sterline).

LA FORMA di produzione della ricchezza presentata in questo saggio non è una bizzarria linguistica o terminologica. Fa parte della quotidianità tanto nel Nord che nel Sud del pianeta e che ha conosciuto, in questi giorni, un punto di svolta e una accelerazione nella sua diffusione su scala planetaria. Facebook ha infatti proposto una cryptomoneta globale, Libra, che vedrà la collaborazione di altre piattaforme digitali. Una moneta che avrà regole stabilite non da Stati nazionali, ma da imprese private, evitando dunque ogni possibilità di intralcio e limite imposto da parlamenti e organismi internazionali. Oltre a diventare una banca mondiale privata che potrebbe gestire potenzialmente gran parte delle transizioni commerciali e finanziarie, Facebook potrà continuare ad accumulare Big Data. Libra sarebbe il sogno degli anarco-capitalisti di Silicon Valley: coniare moneta al di fuori dello stato. Forse per questo dentro il consorzio – ironia della storia una associazione no profit che fa leva su software e ricerca svolte con soldi dell’Unione europea – ci sono molti dei capitalisti di ventura – PayPal – divenuti il simbolo dell’ideologia neoliberista californiana.

IL LIBRO di Soshana Zuboff non ne parla, ovviamente, dato che è stato pubblicato prima del lancio di Libra, ma molti altri episodi rilevanti dell’affermarsi del «capitalismo della sorveglianza» sono ampiamente analizzati, usando uno stile che rende il libro di godibile lettura, catturando l’attenzione – una delle risorse scarse dell’era digitale – del lettore. Inoltre, è esplicito l’uso di un corpus teorico ben poco mainstream.
L’avvio del volume proietta la descrizione di un presente claustrofobico dove ogni gesto, atto, sia pubblico che tra le pareti domestiche, è monitorato, registrato ed elaborato per costruire profili personali con lo scopo di costruire una base di dati propedeutica alla previsione dei comportamenti futuri nel consumo. Miliardi di uomini e donne sono stati e continuano a essere schedati, mentre i dati diventano proprietà delle imprese. Soshana Zuboff si dilunga sui dispositivi digitali presentati come tecnologie che possono compiere azioni di routine generalmente svolte nel lavoro di cura. Non che i Big data e la indispensabile raccolta di dati personali non esistessero già – i cookie, che chiedono l’autorizzazione a «installarsi» sui computer connessi alla Rete servono a questo – ma si può parlare di capitalismo della sorveglianza quando è tracciata ogni azione quotidiana, dalle passeggiate per strada, registrando anche i tempi di sosta di fronte le vetrine, agli acquisti fatti in un negozio o il cibo consumato per strada.

È SUL CRINALE dell’accumulo di dati riguardanti la vita quotidiana che fiorisce dunque il capitalismo della sorveglianza, che ha come materia prima l’esperienza umana. Da qui la proliferazione di sensori, telecamere, microprocessori battezzati come «Internet delle cose», dato che ogni strumento tecnologico – dagli elettrodomestici al microchip inseriti nelle automobili, fino agli avveniristici abiti che hanno collegamenti wireless con la Rete – servono a raccogliere dati. Ovvio che accanto all’hardware c’è un notevole sviluppo di programmi informatici, che non disdegnano di attingere a algoritmi elaborati in base a ricerche e metodiche derivata dall’Intelligenza artificiale. Eppure ciò rimarrebbe dentro un framework tutto sommato noto. Quel che costituisce una discontinuità nell’economia capitalistica della Rete è il tema della predittività, cioè la previsione e la capacità di anticipare ciò che fino a una manciata di anni fa era imprevedibile.
Il capitalismo della sorveglianza colonizza cioè il presente per meglio plasmare a proprio vantaggio il futuro che verrà. La predittività, secondo l’autrice, non significa infatti elaborare algoritmi e software per capire quale libro sarà acquistato in futuro, quale film affittato, quale viaggio prenotato, ma punta a modificare i comportamenti umani al fine di renderli appunto prevedibili dentro strategie produttive e commerciali che considerano l’esperienza umana una materia prima e una merce da vendere nella forma di Big Data. Su questo non c’è privacy che tenga, né diritti civili e sociali da rispettare. La vita è cioè un «territorio» da saccheggiare e colonizzare.

Soshana Zuboff stila diagrammi di flusso sul ciclo comportamentale, cioè da quando vengono raccolti i dati, la loro elaborazione e la loro reimmissione dentro una dinamica secondo cui ogni profilo individuale deve essere messo in relazione con altri profili per alimentare la digital dispossession, cioè l’espropriazione dell’esperienza individuale. Si sofferma inoltre sull’imperativo dell’estrazione, cioè nell’organizzare il flusso produttivo in funzione della continua espropriazione dei dati e individuazione dei campi dell’agire umano sfuggiti al precedente data mining.
Il libro, come già evidenziato, è una piccola miniera di dati, di racconti sui progetti messi in campo dalle Big Five. Interessanti sono altresì le pagine sulla collaborazione tra imprese e servizi di intelligence nazionali. La sorveglianza diviene dunque il campo di una negoziazione e complicità tra imprese private e servizi nazionali nell’aggirare le leggi sulla privacy, violando anche i diritti civili in nome della sicurezza nazionale. Il capitalismo della sorveglianza si fonda cioè su un complesso militare – digitale – i casi Cambridge Analityca ed Edward Snowden ne sono la testimonianza – che ha sostituito quello militare-industriale.

L’AUTRICE fa sue le teorie sul capitalismo estrattivo – forte è l’eco delle tesi sull’accumulazione per espropriazione –, mentre movimenti sociali come quelli degli indignados spagnoli sono guardati con simpatia a partire dalle mobilitazioni intraprese per il diritto all’oblio – il diritto, cioè, di vedere cancellati i propri dati ogni cinque anni – che hanno portato alla promulgazione di una legge in Spagna e al suo recepimento nelle aule altrimenti benevole verso i big tech di Bruxelles. La privacy diviene dunque non solo un diritto individuale alla riservatezza ma anche una forma di resistenza e di conflitto contro l’espropriazione dell’esperienza umana da parte delle imprese. Ma la Zuboff sa che è un conflitto in divenire, che la realtà è in movimento. E dunque invita a soffermarsi sulle strategie delle imprese per prevenire le critiche, per modificare alcuni progetti, accogliendo retoricamente alcune critiche, ma solo per rendere più inattaccabili e al riparo da ostacoli – politici, legislativi, sociali – i propri progetti e le pratiche sofisticate di data mining.

SIGNIFICATIVE sono le strategie di pubbliche relazioni e di trasformismo della Big Five quando finiscono sotto il microscopio e l’azione dei movimenti sociali. Emblematico è il caso di Street View di Google, che è stato dismesso in alcune città europee quando le critiche hanno messo all’angolo la società di Larry Page e Sergej Brin, per poi essere rilanciato in grande stile facendo leva sulla sacralità della riservatezza e della privacy, sostenendo di non usare la videosorveglianza, ma di attingere sulle foto «postate» dai singoli, continuando così ad accumulare montagne di dati sugli utenti. Zuboff dà per scontato che tutto ciò preveda un instrumental power sicuramente soft ma pervasivo e intrusivo. E che si presenta attraverso meccanismi automatici e «astratti», oggettivi, perché definiti da macchine. È un potere macchinico quello denunciato da Zuboff. Al quale non può che contrapporsi un contropotere incardinato su quella caratteristica della specie umana: esseri sociali che danno il meglio di sé solo quando condividono con i propri simili i prodotti della loro azione comune.

* Fonte: Benedetto Vecchi, IL MANIFESTO



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