Strage sul lavoro di Arena Po, chi è più sfruttato rischia di più

Strage sul lavoro di Arena Po, chi è più sfruttato rischia di più

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Altri quattro lavoratori morti. Erano indiani, sikh per l’esattezza, e provenivano dal Punjab. Si chiamavano Prem e Tarsem Singh e poi Harminder e Manjinder Singh. I primi due, di 48 e 45 anni avevano rilevato l’azienda agricola dove oltre venticinque anni fa avevano iniziato a lavorare come mungitori. Gli altri due erano dipendenti e da pochi mesi regolarmente assunti. Un’azienda sorta ad Arena Po, nel pavese, e riconosciuta come una delle migliori, con oltre 500 capi di bestiame che ogni giorno producevano latte per varie aziende lattiero-casearie, tra le quali, ad esempio, la Galbani. Avevano iniziato, come tanti loro connazionali, dai gradini più bassi della scala del lavoro. Lavori generalmente poco pagati, pericolosi, poco considerati sul piano sociale.

Anche stavolta i media sono pieni di riflessioni di esperti di ogni genere: ma tutte il giorno dopo la tragedia. Per Gurmukh Singh, presidente della comunità indiana del Lazio – che insieme alla Flai Cgil, Cgil e alla cooperativa In Migrazione il 18 aprile del 2016 organizzò il primo e più importante sciopero di braccianti indiani in Italia, a Latina, con oltre 4.000 lavoratori e lavoratrici che si ribellarono al caporalato e allo sfruttamento – «si tratta di una tragedia immensa per la nostra comunità. Erano bravi ragazzi e grandi lavoratori. Ogni anno perdiamo decine di connazionali che muoiono nelle campagne. Sono tutti morti che potevano essere evitati. A morire sono prima di tutto i più sfruttati, chi vive ai margini, chi deve chiamare il datore di lavoro padrone e fare anche venti chilometri in bicicletta per andare a lavorare perché non può permettersi neanche un motorino». Si ripropone un dramma ordinario che si poteva evitare se gli ispettori avessero monitorato con attenzione l’intera azienda e obbligato i lavoratori al rispetto delle misure di sicurezza già previste dalla normativa. Nulla di tutto questo è accaduto.

Le statistiche dicono che il lavoro in Italia uccide un lavoratore ogni 8 ore, e ne ferisce uno ogni 50 secondi. A farne le spese soprattutto gli sfruttati, i precari, gli emarginati, i migranti che lavorano come schiavi nelle campagne e nei cantieri di tutta Italia. Un sistema, con la responsabilità delle istituzioni da anni latitanti. «In Italia manca una politica della prevenzione coerente, effettiva, efficace, pubblica e privata – afferma Bruno Giordano, magistrato di Cassazione e docente universitario di sicurezza del lavoro -. Ogni Regione assume la sua idea di prevenzione, spesso facendo attenzione a risparmiare e non urtare il mondo delle imprese, mentre gli ispettori delle Asl negli ultimi dieci anni sono diminuiti della metà. Il concorso per ispettori del lavoro promesso oltre un anno fa è stato solo bandito e deve ancora iniziare». Nelle campagne italiane succede di tutto. Dai braccianti che muoiono perché cadono dalle serre che sono chiamati a lavare con acqua e sapone per aumentarne la resa salendo sopra di esse senza alcun tipo di protezione, agli incidenti col trattore, ai braccianti che vengono investiti per strada mentre vanno o tornano dal lavoro a piedi o in bicicletta. Solo nell’Agro Pontino, oltre trenta braccianti ogni anno subiscono infortuni vari che il padrone obbliga a non denunciare per evitare controlli.

Sono poi migliaia i lavoratori indiani costretti a diffondere, sotto le serre e senza alcune protezione, fitofarmaci di ogni genere, in alcuni casi venduti al padrone clandestinamente dalla camorra per riuscire ad avere una resa produttiva migliore. Il tutto a discapito della salute degli stessi lavoratori che finisco col sviluppare tumori o patologie respiratorie gravi, oltre che dell’ambiente. Le sostanze di base dei fitofarmaci alterati per l’agricoltura vengono importate dalla Cina e transitano per i porti italiani, in particolare per Goia Tauro, in Calabria e senza nessun controllo, nessuna ispezione. Ancora Giordano: «Ci vuole un’unica Agenzia che concentri la prevenzione, raggruppi una sola forza ispettiva, crei squadre specializzate per informare prima ancora di sanzionare. (…) Ci vogliono fatti, come sono fatti un morto ogni 8 ore, non lacrime di coccodrillo».

* Fonte: Marco Omizzolo, il manifesto



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