Colombia. Dopo la strage i reclusi protestano via Whatsapp: «Abbiamo diritto a una vita degna»
Il Covid-19 corre per il mondo e come una cartina tornasole mostra i drammi e le contraddizioni dei territori e delle società che attraversa. Così è per le carceri, così è anche in Colombia.
Lo scorso 21 marzo, una delle pagine più sanguinose della storia carceraria del paese: la rivolta dei carcerati colombiani, che chiedono più sicurezza contro il virus pandemico e il ripristino delle visite dei parenti, viene sedata con inaudita violenza. Ventitré i detenuti uccisi, 80 i feriti e la prigione La Modelo di Bogotà diventata teatro di guerriglia e morte.
Mercoledì scorso, con una giornata di protesta pacifica organizzata via Whatsapp, i detenuti di tutti gli istituti penitenziari colombiani hanno provato a far arrivare al governo richieste precise, denunciando la situazione di forte precarietà: «Abbiamo diritto alla vita, alla salute, alla dignità – hanno detto attraverso un video – e lo Stato ne è responsabile. Abbiamo bisogno di acqua potabile, cibo sano, disinfettanti, sapone, mascherine. Parenti e avvocati non possono più venire a trovarci, mentre le guardie entrano ed escono senza alcun controllo sanitario. No alle pallottole, no alla pandemia».
Il detenuto legge il documento davanti a una platea di un centinaio di prigionieri seduti per terra in uno dei cortili interni del carcere bogotano. Alle loro spalle si intravvedono lenzuola colorate e indumenti stesi dalle finestre, pezzi di vita quotidiana di una delle prigioni più violente del paese, afflitta da un endemico problema di sovraffollamento che stringe oltre 5mila carcerati negli spazi pensati per 2.600.
La rivolta nelle carceri colombiane non è legata solo alla pandemia in corso – che in Colombia ha fatto registrare fino a oggi circa 2.200 contagiati, di cui un migliaio solo a Bogotà, e 79 decessi – ma si intreccia con problematiche pregresse. In una nota dell’Alta Commissaria per i diritti umani Onu, Michelle Bachelet, emessa dopo quella che viene definita «la strage del 21 marzo», si denuncia come nelle 132 carceri in Colombia il sovraffollamento sia quantificato oltre il 50%: «Sono 120mila persone costrette in carceri pensate per 80mila e che necessitano misure di sicurezza contro la diffusione del Covid-19».
Il governo di Ivan Duque – criticato duramente sia da parte di organismi per i diritti umani, che da deputati dell’opposizione – ha annunciato un decreto che preveda a breve la liberazione di 10mila carcerate e carcerati tra anziani, malati o che abbiano già scontato i due terzi della pena.
E mentre il Movimento carcerario denuncia le ripercussioni da parte delle guardie verso i detenuti – «Ci privano dell’acqua e della libertà», dicono – a preoccupare è la serie di trasferimenti di prigionieri politici verso il carcere di massima sicurezza di Ibaguè.
L’organizzazione per i diritti umani Corporación Solidaridad Jurídica è allarmata: «Denunciamo il trattamento repressivo e militare verso i prigionieri politici – ci spiega il suo presidente John Leon – La notte del 24 marzo sono stati prelevati dal Patio 4 de La Modelo [la sezione del carcere dove attendono di essere giudicati gli ex guerriglieri. Nel Patio 5 sono detenuti invece ex paramilitari, ndr], quattro ex guerriglieri senza che potessero prendere i propri oggetti personali, né comunicare con gli avvocati. Sono stati portati nel carcere di massima sicurezza di Ibaguè, le motivazioni sembrano essere di natura disciplinare. Uno di loro, Josè Parra Bernal, era malato e protetto dalla Commissione Internazionale per i diritti umani, ci giunge voce che sia già deceduto».
La situazione è complicata dal conflitto giurisdizionale con la Jep (Giurisdizione speciale per la Pace, l’organismo preposto alla valutazione dei casi nell’ambito del processo di pace in corso in Colombia dal 2016), che di fatto blocca le amnistie – che potrebbero essere previste dal decreto governativo – per gli ex guerriglieri.
«Denunciamo la possibile sparizione forzata di queste persone», conclude Leon. Anche Michelle Bachelet ha scritto una preoccupata nota in proposito: «Ora più che mai crediamo che il governo colombiano debba prendere in considerazione di liberare prigionieri politici in carcere senza sufficienti motivazioni».
Apprensione anche per le tre giovani studentesse da tre anni incarcerate per l’attentato del 2017 al Centro commerciale andino di Bogotà, simbolo di quello che viene definito da movimenti universitari e organizzazioni sociali, un «montaggio giudiziale». Anche di Lizeth Rodríguez, Lina Jiménez ed Alejandra Mendez non si sa più nulla.
* Fonte: Francesca Caprini, il manifesto
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