Tra l’Australia e l’Amazzonia i popoli indigeni sono a rischio

Tra l’Australia e l’Amazzonia i popoli indigeni sono a rischio

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Nello stato di Victoria, lungo il tratto di statale che collega le città di Melbourne e Adelaide, il gracchiare stridulo dei pappagalli cacatua, tipico dei boschi dell’Australia meridionale, è interrotto dal ronzio delle seghe a motore. Alcuni operai, protetti da un cordone di agenti della polizia e circondati da una cinquantina di manifestanti, stanno abbattendo un albero. I manifestanti, provenienti prevalentemente dalla nazione aborigena Djap Wurrung, filmano con i telefoni e chiamano i rinforzi, che dopo poche ore arrivano da Melbourne, a circa duecento chilometri di distanza. La tensione è molto alta e gli operai e la polizia decidono di allontanarsi.

«TORNERANNO PRESTO» dice preoccupato Zellanach Djab Mara, uno dei giovani leader della nazione aborigena Djap Wurrung, che da migliaia di anni abita queste terre. Alcuni dei manifestanti salgono sulle automobili e si dirigono al campo base, definito Primo Campo, il più grande dei tre accampamenti permanenti. Qui, da circa quindici mesi, Zellanach Djab Mara, insieme alla moglie Amanda Mahomet e a un gruppo di elders (termine inglese utilizzato per riferirsi all’importante ruolo decisionale degli anziani nelle comunità native) si sono accampati per proteggere quello che per loro rappresenta un patrimonio culturale e identitario fondamentali.

I TRE ACCAMPAMENTI SORGONO infatti intorno a degli eucalipti plurisecolari e incredibilmente imponenti che storicamente, per le donne e gli uomini della nazione Djap Wurrung, rappresentano un luogo sacro per la maternità. Il Primo Campo, nello specifico, è sorto per proteggere un gigantesco albero cavo di circa 800 anni, al cui interno cinquanta generazioni di donne indigene hanno dato alla luce la generazione successiva.

SOLO LE DONNE POSSONO avere accesso all’albero e alcuni cartelli chiedono di rispettare la sacralità del luogo e di non scattare fotografie. Intanto, in accordo con una importante tradizione aborigena, un grande falò accoglie i visitatori. Il fuoco cerimoniale non si deve mai spegnere e gli anziani sono seduti intorno, in cerchio.
Nel 2013 il governo della stato di Victoria ha approvato la realizzazione di un tratto di superstrada di 12,5 chilometri tra le località di Buangor e Ararat, con l’obiettivo di ridurre di circa due minuti i tempi di percorrenza tra i due centri abitati. La nuova superstrada è stata presentata come un progetto fondamentale per motivi di sicurezza, a seguito della morte di undici automobilisti coinvolti in incidenti stradali dall’inizio del 2013.

PRIMA DELL’EFFETTIVA APPROVAZIONE del progetto, il governo ha ufficialmente consultato due organizzazioni aborigene: in seguito ai colloqui il piano di lavoro è stato leggermente modificato per salvare quindici alberi di particolare rilevanza culturale indigena. Tuttavia la realizzazione dell’opera prevede, tutt’ora, l’abbattimento di migliaia di alberi tra cui circa 200 considerati sacri dalla nazione Djap Wurrung.

A metà marzo 2019 la tensione è esplosa per l’arrivo dei bulldozer, scortati da un contingente di polizia. In quell’occasione un centinaio di uomini e donne aborigene, supportati da attivisti, aveva allontanato polizia e bulldozer, riuscendo a strappare al governo una tregua e un momentaneo stop ai lavori, che però sono ripresi a settembre. Più recentemente, i primi di ottobre, il governo e la nazione aborigena Djap Wurrung hanno raggiunto un iniziale compromesso che permetterebbe di dare avvio, pacificamente, ai lavori lungo un primo tratto di 3,5 chilometri, considerato a minor rischio di impatto culturale. La tensione, dovuta alla prosecuzione dei lavori lungo i restanti 9 chilometri, rimane però alta e gli attivisti chiedono che il sito sia dichiarato e riconosciuto patrimonio culturale da tutelare.

AL CAMPO, ZELLANACH DJAB MARA organizza una cerimonia di purificazione e di benvenuto per gli ospiti. Alcune foglie e rami di eucalipto sono gettati sulla brace. Il profumo è inebriante e i visitatori sono invitati a farsi avvolgere dai fumi e a lasciare qualcosa di proprio, anche una ciocca di capelli, in offerta alla terra.
«Il nostro legame con questa terra è fortissimo», mi spiega Zallanach Djab Mara. «Quando ascolti della musica, la musica migliora il tuo spirito. La stessa cosa avviene con la nostra terra. La terra ti fa stare bene, ti riempie…». E ancora: «Questa è la nostra cattedrale, un luogo dove ci riuniamo, entriamo in connessione con la terra e ci curiamo, uno spazio dove comunichiamo con i nostri antenati». Poi si rivolge a noi europei: «Quando, in aprile, Notre Dame ha preso fuoco, i parigini hanno raccontato di come l’incendio li avesse fatti riflettere sulla loro identità, è la stessa cosa che capita a noi».

IL PARAGONE CON NOTRE DAME è particolarmente efficace. «Non si può separare una chiesa dalle sue colonne, dalle sedie o dal sagrato», continua. «Il piano del governo di salvare alcuni alberi, abbattendo però tutti gli altri intorno, rappresenta proprio il tentativo di separare la cattedrale dal sagrato e dalle sedie. Eppure nessuno si sognerebbe di abbattere una cattedrale per costruire una strada».
Mi prendo qualche minuto per passeggiare tra gli eucalipti mentre due pappagalli mi osservano incuriositi da un ramo. Il sito su cui ci troviamo è attraversato da una songline, una delle linee invisibili e sacre che attraversano l’Australia, in un reticolo che si manifesta soltanto a chi conosce le parole e la melodia dei canti tradizionali. Quello di songline è uno dei concetti più misteriosi e allo stesso tempo fondamentali nel mondo culturale e nella costruzione identitaria dei popoli aborigeni.

COME SPIEGA LYNNE KELLY, divulgatrice di scienza e ricercatrice, in un’intervista per ABC radio, «le songlines sono sistemi per navigare il territorio che gli anziani tramandano oralmente alla comunità, cantando il paesaggio sono in grado di orientarsi da un luogo all’altro, ma le songlines sono anche un modo per perpetuare e memorizzare un’enorme quantità di informazioni sul territorio». Alcune ricerche hanno mostrato che il 70% di questi canti sono costituiti da informazioni su animali, piante e la loro stagionalità, tutte informazioni necessarie per sopravvivere e conoscere un certo territorio.

«La cultura e l’identità aborigena – prosegue Lynne Kelly – sono quindi spazialmente collocate e incarnate nel paesaggio. La tua terra diventa quindi anche la tua enciclopedia e se qualcuno innalza una recinzione e ti ferma, rappresenta l’equivalente di chiudere un’università antica di molte migliaia di anni. La prima presenza dei popoli aborigeni in Australia è stata infatti datata a 40.000-50.000 anni fa».

Percorrendo l’area attraversata dalla songline, a pochi chilometri dal primo campo si incontra il campo di mezzo, sorto intorno e a protezione di un altro imponente eucalipto, dove le donne, terminato il parto, sotterravano tradizionalmente la placenta. La crescita di uno dei rami dell’albero è stata modificata culturalmente negli anni, per indicare la direzione da seguire per raggiungere un terzo sito, a distanza di pochi chilometri, dove si trovano un ruscello e un campo di erbe medicinali.
Qui sorge il terzo campo. Accanto al ruscello, una ragazza che ci fa da guida ci indica un tronco di eucalipto in cui si scorge la sagoma di una canoa scavata ed estratta sapientemente dal legno. «I nostri antenati sapevano prendere quello che serviva senza danneggiare l’ambiente».

LA SERA TORNIAMO A DORMIRE al primo campo. Il falò illumina la notte e una decina di ragazzi e anziani è seduta intorno a suonare. Hanno portato violini e chitarre e la melodia è incalzata dal battere ritmico dei clappers, strumenti a percussione tipici della musica aborigena. Altri organizzano i turni di guardia per la notte, per evitare che l’eventuale arrivo della polizia al campo colga tutti impreparati.

Vicino a uno degli alberi sacri, un grande cartello recita: «No tree no treaty» (Niente albero, niente trattato). Si riferisce al trattato formale tra governo e popoli aborigeni che, al momento, nello stato di Victoria, si trova in fase di negoziazione. L’obiettivo del trattato è il riconoscimento della storia dei popoli indigeni prima dell’occupazione, delle ingiustizie subite durante 240 anni di storia coloniale e la creazione di un percorso di dialogo formale e legale tra stato e nazioni aborigene. Attualmente l’Australia è l’unico paese del Commonwealth a non avere un trattato con i suoi popoli indigeni.

IL TEMA PERO’ E’ SPINOSO. Lidia Thorpe, donna Djap Wurrung e prima donna aborigena eletta nel parlamento di Victoria, esprime, in un’intervista alla radio, delle forti perplessità sul trattato. «Sono personalmente divisa sul tema, è difficile avere fede nel governo quando si parla di qualcosa come un trattato, non vedo alcun passo nella giusta direzione se continuano a disboscare la nostra terra, la nostra madre, come noi la chiamiamo».

«Mi sto candidando per rappresentare le istanze aborigene all’interno dell’assemblea del trattato ma se non si fermano di fronte alla nostra protesta per difendere questi alberi, lascerò la candidatura. Che senso avrebbe? Se non abbiamo nemmeno l’opportunità di negoziare le basi, la nostra terra, che è una parte di noi… Se distruggi la nostra terra, distruggi il nostro popolo».

THORPE E’ SFIDUCIATA E NON CREDE nell’efficacia di un trattato. «In base al Cultural Heritage Legislation, alcuni enti riconosciuti e che dovrebbero rappresentare i popoli nativi possono negoziare con il governo su strade o altri beni che interessano allo stato. Nel caso della nostra terra, il governo dice di avere parlato con due società che dovrebbero rappresentare la nazione Djap Wurrung. La prima delle quali pero è stata addirittura de-registrata e non è più riconosciuta. Ma il governo non vuole incontrarci, nega l’autonomia della nostra nazione. Se queste sono le condizioni, come possiamo immaginare un trattato?».

Sembra inoltre, secondo quanto riporta Micheal Kennedy, avvocato dei manifestanti, che il ministro dell’ambiente non disponesse del report prodotto dalla Federazione delle Corporazioni dei Proprietari Tradizionali di Victoria, che informava della presenza di alberi di interesse culturale, quando approvava il progetto della strada.

«E’ la stessa storia che si ripete ancora e ancora» mi spiega Zallenach Djab Mara, esasperato: «In 240 anni non si è imparato niente. Come ti sentiresti tu al nostro posto? La stessa storia, lo stesso colonialismo. Arrivano e ci portano via il nostro paese… Il governo deve imparare a parlare chiaro, devono imparare quello che noi abbiamo sempre praticato: il dialogo aperto, senza segreti e manipolazioni».

E la storia è stata sofferenza: «Ci hanno rubato la terra, hanno massacrato la nostra gente, hanno provato a cancellarci con la politica della rimozione forzata dei bambini (si riferisce alla politica ufficialmente in atto tra gli anni 1910 e 1970, per cui i figli di coppie miste tra bianchi e aborigeni erano rimossi dalle famiglie e ricollocati in campi di educazione e che coinvolse almeno 25.000 bambini, ndr). Ma siamo ancora qui».
Da lontano un currawong canta tra gli eucalipti e saluta l’arrivo della notte in un paese in cui le ferite di un passato coloniale sono ancora aperte.

* Fonte: Ettore Camerlenghi, il manifesto



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