Gaza. La legge internazionale non è uguale per tutti

Gaza. La legge internazionale non è uguale per tutti

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Nessun missile è stato lanciato verso Israele nei giorni antecedenti ai raid contro la Striscia. Eppure questi ultimi sono stati presentati come «attacchi preventivi», una giustificazione lacunosa secondo il diritto internazionale e dalla prospettiva di chi ritiene che i principi vadano applicati in modo equo a tutte le latitudini. E irricevibile, se non immorale, quando applicata ad altri contesti, a cominciare da quello ucraino

 

La città di Gaza, tornata in questi giorni sotto i riflettori dei media internazionali, è menzionata nelle iscrizioni del faraone egiziano Thutmose III (1481 a.C.). Circa 2700 anni più tardi, il celebre viaggiatore tangerino Ibn Battuta visitò la città e scrisse che Gaza «è un luogo di ampie dimensioni, con molti edifici (kathirat al-imara) e attraenti mercati. Contiene numerose moschee e non ha alcun muro intorno a essa (la sur ’alayha)».

Dalla prospettiva degli attuali due milioni di abitanti della Striscia di Gaza, la testimonianza di Ibn Battuta suona beffarda: i muri scandiscono ogni aspetto delle loro vite. Si tratta di una popolazione in larga parte composta da famiglie di profughi. Molte furono espulse nel 1948 da Najd, Al-Jura e al-Majdal – odierne Or HaNer, Sderot e Ashkelon, quest’ultima, una città di origini canaanite, includeva fino al 1948 al-Majdal – e trasportate con autobus nei campi e nelle città che compongono l’odierna Striscia di Gaza.

Il 51% degli abitanti ha meno di 15 anni: ciò significa che nel 2006, quando Hamas vinse le elezioni, più di metà della popolazione non era ancora nata (l’asfissiante blocco di Gaza risale al 2007, ma l’area è sotto controllo israeliano da 55 anni).

TANTO I GIOVANI – l’85% dei quali soffre, stando a un nuovo rapporto di Save the Children, di depressione e ansia – quanto i più anziani, sono costretti a utilizzare un’unica, inquinata, falda acquifera e a vivere in uno stato di completa dipendenza che include, tra molto altro, i registri demografici (anch’essi controllati da Israele) e la moneta usata (lo shekel).

Fatto salvo questo retroterra, è opportuno notare che l’offensiva contro Gaza – costata la vita a 45 palestinesi (comprese donne e numerosi bambini) e a cui è seguito il lancio di 580 razzi palestinesi verso le città israeliane – è avvenuta a pochi giorni di distanza dall’esercitazione congiunta compiuta nel deserto del Negev dall’Israeli Air Force e dall’Aeronautica militare italiana (con quattro caccia F-35), nonché a meno di tre mesi dalle elezioni previste in Israele (primo novembre).

Alcuni analisti hanno notato che l’operazione militare permette al premier Yair Lapid, sprovvisto di un background militare, di accreditarsi come leader forte. Altri, come il giornalista israeliano Meron Rapoport, hanno sostenuto che «Israele ha punito il Jihad Islami per non aver reagito all’arresto di (un loro leader, Bassam) al Saadi», avvenuto nel corso di un blitz compiuto nel campo profughi di Jenin lo scorso 2 agosto e costato la vita a un 17enne palestinese.

Al di là delle diverse interpretazioni, risulta acclarato che nessun missile è stato lanciato verso Israele nei giorni antecedenti ai raid contro Gaza. Eppure questi ultimi sono stati da più parti presentati come «attacchi preventivi»: una giustificazione lacunosa secondo il diritto internazionale e l’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite, che consente l’uso della forza militare solo in risposta a «un attacco armato».

IN UN SERVIZIO del Tg1, ad esempio, è stato fatto presente che Israele ha lanciato «un attacco contro la jihad islamica per prevenire un attacco sul proprio territorio», mentre il New York Times ha sostenuto che «i bombardamenti hanno colpito appartamenti residenziali e torri di avvistamento, uccidendo almeno dieci persone tra cui una bimba di cinque anni».

Va detto che siffatte argomentazioni sono sovente considerate irricevibili, se non immorali, quando applicate ad altri contesti, a cominciare da quello ucraino, come peraltro confermano le recenti polemiche seguite alla pubblicazione del rapporto di Amnesty International dello scorso 4 agosto.

Tale rapporto, oltre a rimarcare in maniera netta l’esistenza di un aggressore (la Russia) e di un aggredito (l’Ucraina), si è soffermato sul fatto che «le tattiche di combattimento ucraine mettono in pericolo i civili», ovvero ciò che viene abitualmente imputato ad Hamas per giustificare l’ampio numero di civili uccisi nei bombardamenti sulla Striscia di Gaza.

Il rapporto di Amnesty è stato prontamente stigmatizzato dal presidente ucraino Zelensky, il quale ha scritto che questo promuove una «immorale selettività». Dalla prospettiva di quanti ritengono che i principi nei quali crediamo debbano essere applicati in modo equo a tutte le latitudini, appare tuttavia significativo che il primo gennaio 2020 lo stesso Zelensky abbia ritirato l’adesione dell’Ucraina dal Comitato delle Nazioni unite per l’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese.

UN ANNO e cinque mesi più tardi, nel pieno della cosiddetta «crisi israelo-palestinese del 2021», costata la vita a nove ebrei israeliani (inclusi due bambini) e 256 palestinesi (tra cui 66 bambini), il presidente ucraino scrisse un tweet nel quale sottolineava che la sola tragedia ravvisabile nel contesto della guerra nella Striscia di Gaza era quella patita da Israele, il cui cielo era «disseminato di missili».

Non una sola parola venne riservata dal presidente ucraino ai palestinesi, indipendentemente da quale fosse il lembo di terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo nel quale essi si trovassero. Ciò rappresenta un’ulteriore conferma del fatto che i doppi standard e i principi a singhiozzo sono sempre più parte integrante del mondo, spesso «capovolto», nel quale ci troviamo a vivere.

* Fonte/autore: Lorenzo Kamel, il manifesto

 

Image by hosny salah from Pixabay



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