Siria. Rojava, bombe turche contro ospedali e mercati
Intervista a Nilufer Koc (Knk): «Operazione lanciata con il beneplacito di Usa e Russia. La strategia di Erdogan è un’occupazione militare attraverso una guerra a bassa intensità. Se la rivoluzione in Siria fallisce, si apre la strada a un nuovo califfato come è stato l’Isis»
Un ospedale, silos del grano, un mercato, una centrale elettrica: nel mirino della rinnovata operazione militare turca contro il Rojava, il Kurdistan in Siria, ci sono le infrastrutture civili. L’offensiva, temuta da mesi dopo le minacce ripetute del governo turco, era ormai una questione di ore: l’attentato del 13 novembre a Istanbul e le «certezze» di Ankara («L’ordine è arrivato da Kobane») non facevano immaginare nulla di diverso.
Le prime bombe sono iniziare a cadere sulla Siria del nord-est alle 22.45 di sabato sera. Aerei da guerra e droni che, da quel momento, non si sono più fermati, da Kobane a Darbasiyah, da Gire Spi a Manbij. Almeno 30 i civili, tra loro due giornalisti, e 13 i soldati siriani uccisi. Nelle stesse ore si intensificano i bombardamenti nelle montagne settentrionali dell’Iraq, base militare e ideologica del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk).
La risposta della popolazione è stata immediata: ieri a Derik in migliaia hanno preso parte ai funerali delle vittime, mentre i negozi del cantone di Jazera abbassavano le saracinesche. Ne abbiamo parlato con Nilufer Koc, la portavoce dell’ufficio affari internazionale del Knk, il Congresso nazionale del Kurdistan.
Da mesi il presidente Erdogan minaccia una nuova operazione per occupare altri pezzi di Rojava. Qual è l’obiettivo?
L’attacco al Rojava e al Bashur (Kurdistan in Iraq) è strettamente legato alla profonda crisi in cui versa il regime turco. Incapace di indebolire il movimento curdo, prova a occupare due delle sue parti, Rojava e Bashur. Erdogan lo ha detto più volte: entro ottobre 2023, a un secolo dalla fondazione della Repubblica turca, intende ricreare la «Grande Turchia». Nel 2023 cade anche il 100esimo anniversario del Trattato di Losanna: il presidente turco non ha mai nascosto di volersi riprendere quello che, dice, gli europei hanno tolto all’impero ottomano. La sua strategia è un’occupazione militare attraverso una guerra a bassa intensità: attaccare, riposare, attaccare di nuovo. È una guerra psicologica.
Per questo la Turchia prende di mira le infrastrutture civili?
L’obiettivo è svuotare il Rojava spaventando le persone e costringendole a fuggire: in questo modo gli basterà usare l’aviazione e poi occupare via terra luoghi ormai vuoti.
Nei mesi passati Russia e Stati uniti avevano frenato il bellicismo turco. Cos’è cambiato?
Questi ultimi attacchi hanno avuto il via libera da Russia e Stati uniti, era necessario: parti delle zone bombardate sono sotto il controllo russo e statunitense. Erdogan ha sicuramente avuto luce verde al G20 di Bali. Si è presentato con l’attentato di Istanbul, accusando Ypg e Ypj (le unità popolari curde della Siria del nord-est, ndr), aveva bisogno di qualcosa per negoziare l’imminente offensiva. Mosca e Washington vogliono tenere la Turchia dalla propria parte, visto il ruolo opaco che gioca da anni e in particolare in questo momento. Per le grandi potenze importa poco quanti civili perdono la vita, lo abbiamo visto in Ucraina. Più importante è mantenere la Turchia al proprio fianco, gli Usa per compattare la Nato, la Russia per indebolirla.
In gioco c’è una rivoluzione che negli ultimi dieci anni ha mostrato una faccia diversa del Medio Oriente.
È importante difendere il Rojava perché curdi, arabi, assiri, armeni in tempo di guerra hanno creato un’alternativa democratica che non minaccia alcuno Stato. Hanno creato pace. Il nostro timore è che la fine di questa esperienza apra la strada a un nuovo tentativo di califfato come è stato l’Isis: la Turchia controlla oggi ingenti territori in Siria e migliaia di jihadisti dell’Esercito libero siriano, mentre altre decine di migliaia sono detenuti in Siria del nord-est; se il Rojava dovesse cadere, la loro liberazione insieme al ruolo dei miliziani filo-turchi ricondurrà alla situazione del 2014, ancora peggiore di quella dell’Afghanistan per le donne e le minoranze. È una minaccia globale, non solo per noi.
Ypg, Ypj e le Forze democratiche siriane, saranno in grado di resistere ai raid turchi?
Resisteranno, hanno accumulato grande esperienza contro la Turchia e i suoi proxy e avranno il sostegno delle altre forze armate curde della regione e quello della diaspora che si è già mobilitata, in particolare in Europa. Ma il mondo non resti in silenzio. Ankara usa l’articolo 51 della Carta dell’Onu e dice di rispondere a un’aggressione subita. Le Ypg non ha mai attaccato la Turchia. Questo silenzio è lo specchio del darwinismo della comunità internazionale: vige la legge del più forte, non la legge internazionale. Siamo al paradosso: si permette alla Turchia di usare il diritto internazionale per giustificare un’aggressione. Per questo è fondamentale la pressione mediatica e delle opinioni pubbliche, le uniche in grado di costringere i rispettivi governi a intervenire.
In contemporanea l’Iran colpisce il Kurdistan iracheno.
Turchia, Iran, Iraq e Siria sono stati a rischio collasso, in grave crisi. Non si sono mai riformati ma hanno centralizzato la propria struttura e usato gli eserciti per puntellare il sistema. In Iran e Turchia donne, minoranze, operai chiedono libertà e lo stato risponde con la violenza. In entrambi i casi c’è bisogno di un cambio di sistema, non semplicemente un cambio di regime. Per questo sia Teheran che Ankara bombardano i curdi: in Kurdistan è avvenuto un cambio di sistema, non il mero transito da un autoritarismo a una socialdemocrazia, ma una forma alternativa di democrazia radicale, fondata su laicità, femminismo, partecipazione diretta.
* Fonte/autore: il manifesto
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