La Siria del nord-est stanca di aspettare: «Processeremo noi l’Isis»

La Siria del nord-est stanca di aspettare: «Processeremo noi l’Isis»

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 L’Amministrazione autonoma porta alla sbarra per crimini contro l’umanità 10mila foreign fighters che l’Occidente finge di non vedere. Tante le questioni sul tavolo: l’indifferenza del mondo, la sicurezza necessaria e le aspirazioni politiche del confederalismo democratico

 

Lo vanno chiedendo da anni, da quando l’ultima roccaforte dello Stato islamico in Siria cadde. Era la primavera del 2019, le Forze democratiche siriane (Sdf) presero la città di Baghouz e posero fine al progetto statuale dell’Isis.

Lo chiedono da allora: un tribunale internazionale che giudichi le decine di migliaia di miliziani islamisti che negli anni precedenti avevano occupato e brutalizzato un terzo di Siria e un terzo di Iraq, facendo partire da lì cellule che avrebbero colpito anche in Europa.

L’ISIS, nel frattempo, non è scomparso, c’è ancora, nascosto nel deserto al confine tra i due paesi e visibilissimo nei sempre più frequenti attacchi che compie contro civili e forze di sicurezza.

Ma di tribunali internazionali nemmeno l’ombra. Baghdad opta per il boia: processi sommari ai miliziani di cittadinanza irachena e poi la condanna a morte. Nel nord-est della Siria i prigionieri islamisti sono tuttora detenuti in campi invivibili, in attesa di un rimpatrio che non arriverà. Se arriva, lo fa con il contagocce e riguarda sempre e solo i familiari dei miliziani, i figli e le mogli (molto spesso parte attiva dell’ingranaggio Daesh).

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L’Amministrazione autonoma della Siria del nord e dell’est (Aanes) è stanca di aspettare. Autonomia nata nel 2012 in piena guerra civile siriana sulla spinta del paradigma curdo del confederalismo democratico, poi allargato agli altri popoli della regione, l’Aanes e le sue forze di sicurezza, le unità multiconfessionali e multietniche Sdf, si sono finora fatte carico – politico, giudiziario ed economico – degli islamisti prigionieri. Hanno avuto incontri di alto livello con rappresentanti di 48 paesi, hanno chiesto un tribunale internazionale.

Inascoltata, sabato scorso l’Aanes ha annunciato che li porterà alla sbarra per crimini di guerra e contro l’umanità: «Abbiamo deciso di iniziare a processare i membri stranieri dell’Isis, processi aperti, equi e trasparenti in conformità con le leggi internazionali e nazionali sul terrorismo – si legge nel comunicato – Abbiamo fatto appello alla comunità internazionale per trovare soluzione ai membri di Daesh arrivati dall’estero e avanzato molte iniziative per formare un tribunale internazionale nel nord e nell’est della Siria per processarli». Un fardello enorme, dice l’Aanes, che «non può andare avanti a lungo».

SI TRATTA dei 10mila miliziani stranieri, provenienti da circa 60 paesi del mondo, da portare di fronte a un tribunale «per dare giustizia alle vittime e per ottenere giustizia sociale». L’altro obiettivo è di sicurezza: riuscire a controllare una popolazione detenuta dai numeri consistenti e mai deradicalizzata.

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Lo dimostra quanto accaduto nel gennaio 2022, l’assalto al carcere siriano di Hasakah in un’operazione studiata nei minimi dettagli e che avrebbe dovuto permettere l’evasione di migliaia di miliziani, siriani e stranieri, compresi importanti leader del gruppo. Dopo una settimana di battaglia e decine di vittime tra le Sdf, le Forze democratiche siriane riuscirono a fermare l’assalto.

E lo dimostra il campo di al-Hol, una non-città nel deserto di Hasakah dove, accanto a 10mila miliziani uomini, vivono 40mila donne e bambini, in condizioni pessime per l’assenza di finanziamenti (scarseggia tutto: cibo, acqua, tende pulite, scuole). Minorenni immersi nella stessa scala gerarchica e nella stessa opera di indottrinamento vissuta nel «califfato», tra omicidi, roghi di tende, tentativi di evasione che le Sdf non riescono più a gestire.

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Domenica Jiwan Mulla Ibrahim, responsabile stampa dell’Aanes, ha sottolineato che i processi saranno aperti ai membri della coalizione internazionale anti-Isis e a rappresentanti delle ong internazionali e che comunque la decisione non inficia la richiesta, che permane, di agire a livello globale.

L’OCCIDENTE ne è ben consapevole, pur non agendo. Lo scorso ottobre il vice coordinatore al controterrorismo del Dipartimento di Stato Usa, Ian Moss, ha definito la Siria del nord-est «il più grande concentramento di terroristi detenuti al mondo». E ha aggiunto: «Rimpatriarli rappresenta un rischio decisamente minore che lasciarli lì».

Oltre a quelle securitarie, sul tavolo ci sono questioni politiche ideologiche. Da una parte c’è il mancato riconoscimento dell’Aanes: pur avendo rapporti stabili con la coalizione anti-Isis e i governi che ne fanno parte e pur mantenendo aperto il canale del dialogo con il governo di Damasco, l’amministrazione autonoma non è considerata ufficialmente «legittima».

Dall’altra parte sta la più ampia aspirazione del confederalismo democratico a una forma di giustizia che conduca, nel tempo, all’abolizione del carcere. A oggi lo strumento dei comitati popolari di risoluzione delle controversie interne e di superamento del crimine come fenomeno sociale opera per i reati minori, non certo per il terrorismo.

Un fardello che resta sulle spalle di una regione sotto embargo turco e costantemente oggetto di operazioni militari ordinate da Ankara.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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