Summit FAO. I sistemi alimentari messi alla prova dal clima

Summit FAO. I sistemi alimentari messi alla prova dal clima

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 Lo spettro della fame e gli strumenti per scacciarlo. Per soddisfare imperativi ambientali, sociali ed economici occorrerebbero 400 miliardi di dollari da qui al 2030; ma il costo dell’inazione sarebbe infinitamente maggiore

 

Malgrado la freschissima temperatura nelle sale onusiane della Fao a Roma, gli impatti dei cambiamenti climatici sono ben presenti ai partecipanti al vertice «UN Food Systems Summit + 2»: un bilancio sulla trasformazione dei sistemi alimentari a quasi due anni dal primo vertice dell’Onu, a New York. Presenti le agenzie agroalimentari dell’Onu, Fao, Ifad, Pam, i rappresentanti di oltre 150 paesi del mondo e gli altri numerosi attori delle filiere dal campo alla tavola (coltivazione, raccolta, conservazione, lavorazione, trasporto, commercializzazione, consumo).

La trasformazione dei sistemi è necessaria per avvicinarsi fra l’altro al secondo dei diciassette Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (zero affamati entro il 2030); tanto più che, secondo l’ultimo rapporto Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo (Sofi) pubblicato da cinque agenzie specializzate delle Nazioni unite, lo spettro della sottonutrizione minaccia oltre 122 milioni di persone in più nel mondo rispetto al 2019, per effetto di tanti fattori di crisi. Quelli contingenti, come le misure anti-pandemiche e il conflitto in Ucraina; e quelli cronici, come l’esacerbarsi dei mutamenti climatici, la portata dei conflitti locali con il dilagare del terrorismo in Africa, il peso del debito estero, la crisi della biodiversità e la distruzione degli ecosistemi, l’erosione dei suoli, l’insufficienza e la cattiva gestione di fondi, gli sfruttamenti lungo la filiera dal campo. E quel 30% di cibo che viene perduto (a monte è l’insufficienza delle strutture per la conservazione delle derrate, a valle è lo spreco).

DI FATTO, SECONDO IL FONDO internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), per trasformare i sistemi alimentari così da soddisfare imperativi ambientali, sociali ed economici occorrerebbero 400 miliardi di dollari da qui al 2030; ma il costo dell’inazione sarebbe infinitamente maggiore.

Al di là delle cifre, la sorpresa del vertice, o forse no è l’Africa. Al centro e non come vittima ma come protagonista, capace anche di voce comune. «In 20 anni l’Africa nutrirà il mondo», si sbilancia Ibrahim Hassane Mayaki, ex presidente del Niger ora inviato speciale sui sistemi alimentari per l’Unione africana, sottolineando le ricchezze rappresentate sia dalle risorse naturali che dalla popolazione più giovane del mondo. A questo scopo o meglio per nutrire gli africani, occorrono più investimenti continentali e internazionali, soprattutto destinati alle organizzazioni locali e ai piccoli produttori ai quali per esempio «arriva solo il 2% della finanza per il clima» e che «sono obbligati a competere con il business globale, una lotta impari che l’Area continentale di libero commercio affronterà». E i giovani «devono essere convinti di avere un ruolo; vediamo il loro esodo, tentati da altri orizzonti».

IL CONTINENTE AFRICANO (oltre a esportare buona parte dei fertilizzanti che produce), tuttora spende 70 miliardi di dollari l’anno nell’importazione di cibo, ha ricordato Josepha Sacko, commissaria all’agricoltura dell’Unione africana al seminario «Costruire la sovranità alimentare e la resilienza con investimenti sostenibili» (dove diversi esperti hanno sottolineato che l’architettura finanziaria globale ha finora fallito). Chissà se va in quella direzione il progetto «iniziativa 1000 villaggi digitali», lanciata dalla Fao. Del resto la tecnologia digitale e il miglioramento dei dati sono ritenuti un elemento risolutivo.

Diversi delegati africani hanno sottolineato gli sforzi verso sistemi alimentari sostenibili per la nutrizione per tutti. Anche in Madagascar malgrado anni di siccità, anche in Malawi malgrado il ciclone Freddy che ha colpito un terzo del paese. Il Niger scommette anche sugli orti periurbani con l’uso del compost e sulla forestazione nelle città. In Zambia le mense scolastiche (fondamentali, tanto che c’è un movimento mondiale per garantirle a tutti gli alunni) sono ancora insufficienti e allora ecco gli orti coltivati dalle stesse scuole. In Mozambico si recuperano aree degradate e si punta all’energia verde. La popolazione dell’Etiopia sta piantando 30 miliardi di alberi, uno su cinque da frutto. La Tanzania ha un programma per l’agroecologia. Ma non mancano le voci dell’agribusiness e l’insistenza sull’export.

* Fonte/autore: Marinella Correggia, il manifesto



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