Gaza. 27 palestinesi morti nelle prigioni israeliane, il dialogo si ferma

Gaza. 27 palestinesi morti nelle prigioni israeliane, il dialogo si ferma

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Haaretz: decessi nelle basi-prigioni israeliane. Biden non convince Tel Aviv ad aprire i valichi agli aiuti e lancia il «porto umanitario». Hamas lascia Il Cairo. Ma si parla di un nuovo round negoziale tra pochi giorni

 

Le immagini di palestinesi di Gaza spogliati, bendati e legati, costretti in ginocchio o sui camion, lungo le strade del nord o nello stadio Yarmouk, avevano fatto il giro del mondo, per poco. Eppure dall’inizio dell’offensiva via terra, a fine ottobre, l’esercito israeliano ha arrestato centinaia di persone. Le ha presi nelle case o nei rifugi, nelle scuole di Unrwa e negli ospedali. Ha arrestato medici, infermieri, giornalisti, operatori umanitari.

Molti di loro sono stati rilasciati dopo settimane di detenzione, in condizioni orribili, hanno raccontato le loro testimonianze e i segni sui loro corpi. A oggi, secondo l’HaMoked Center, sono 793 i gazawi detenuti come «combattenti illegali» nelle prigioni, a cui si aggiunge un numero imprecisato di prigionieri nelle basi militari.

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DI COSA SUCCEDA nelle carceri israeliane si sa solo questo, quello che riportano i palestinesi liberati, tra loro anche tanti lavoratori della Striscia che il 7 ottobre erano in territorio israeliano con regolare permesso. Altre informazioni le danno i giornali israeliani e le associazioni palestinesi che tentano di scoprire dove siano detenuti: la Croce rossa non ha mai avuto accesso alle celle.

Si sa che moltissimi sono detenuti in campi di prigionia militari, non in carceri vere e proprie. Come la base di Sde Teiman o quella di Anatot, in stato di interrogatorio permanente con l’Unità 504. Il diritto alla difesa è una chimera: il governo israeliano ha modificato i termini di legge (legge militare: i palestinesi dei Territori non sono sottoposti a regime civile) per cui i detenuti possono rimanere in una cella fino a 75 giorni senza vedere un legale e nemmeno un giudice che decida del loro fato.

Ieri Haaretz ha detto di più: 27 prigionieri gazawi sono morti in custodia dal 7 ottobre. L’esercito ha fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sui decessi, per ora dice solo che alcuni soffrivano di malattie pregresse o ferite di guerra. A cui parrebbe non siano state fornite cure adeguate. Secondo l’inchiesta di Haaretz, i prigionieri sono ammanettati e bendati per buona parte del giorno, vengono regolarmente picchiati e non ricevono cibo a sufficienza. La conferma arriva da varie fonti: dai corpi dei liberati, da inchieste del New York Times, dai rapporti dell’Onu che parlano di detenuti pestati, molestati, derubati.

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IMPRIGIONATI però non finiscono solo i vivi. L’esercito detiene anche i morti in cerca ostaggi israeliani o miliziani di Hamas. Ieri, dopo le verifiche, ha “restituito” 47 cadaveri di cui i soldati si erano impossessati scavando nei cimiteri e nelle fosse comuni: decomposti, irriconoscibili, è impossibile identificarli. Sono stati sepolti come ormai a Gaza si seppelliscono le vittime dei raid, sacchi blu in fosse comuni.

Ieri, vicino al Nasser Hospital di Khan Younis, si è tenuta una cerimonia funebre di massa per i 47 senza nome. Non è la prima volta: secondo lo stesso esercito, da quell’ospedale a febbraio erano stati portati via 400 corpi, nessuno di ostaggi, fa sapere la tv pubblica Kan.

Intanto dal Cairo non giungono buone notizie: ieri la delegazione di Hamas, nella capitale egiziana per il negoziato, se n’è andata accusando Israele di «aver mandato all’aria» i tentativi di dialogo. Il movimento islamico insiste, oltre che sul cessate il fuoco permanente, sul ritiro dell’esercito israeliano e il ritorno degli sfollati a nord. Da parte sua Tel Aviv ripete che a congelare il negoziato è il rifiuto di Hamas a fornire una lista degli ostaggi ancora in vita.

Fonti vicine ai negoziatori hanno fatto sapere alla stampa locale che il dialogo potrebbe riprendere la prossima settimana: ne consegue che non sono previste tregue prima dell’inizio del Ramadan, data di «scadenza» agognata dall’amministrazione Usa, che di nuovo ieri con l’ambasciatore in Israele, Jack Lew, si è detta fiduciosa. E poi c’è il Wall Street Journal che ieri ha riportato di tensioni interne alla leadership di Hamas, quella fuori Gaza (Haniyeh) e quella dentro (Sinwar), con la seconda che vorrebbe approfittare della pressione di Washington su Tel Aviv, delle difficoltà interne del premier israeliano Netanyahu, che si ritrova in piazza sempre più manifestanti a chiedere elezioni anticipate e infine delle possibili proteste nel resto dei Territori occupati.

NETANYAHU IERI ha risposto indirettamente: nessuna pressione internazionale impedirà di proseguire nell’offensiva, ha detto, in tutta Gaza «inclusa Rafah, chiunque ci dica di non operare a Rafah ci sta dicendo di perdere la guerra». Un’avanzata che, dall’Onu agli alleati europei, temono tutti: la città meridionale è oggi casa a 1,5 milioni di sfollati.

Ad appoggiare Netanyahu c’è il capo di stato maggiore, Herzl Halevi, che insiste per avere più soldati, «espandendo le fila delle reclute da tutti i settori della società». Riferimento indiretto agli ultraortodossi, da sempre esentati ma da anni sotto pressione perché si infilino l’uniforme.

Intanto a Gaza la situazione peggiora. Ieri il relatore speciale Onu per il diritto al cibo, Michael Fakhri, ha accusato Israele di distruggere il sistema alimentare gazawi come strategia di guerra («campagna della fame»), rallentando gli ingressi degli aiuti e impedendo ai palestinesi di pescare e coltivare le terre.

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Ieri l’alto rappresentante agli esteri della Ue, Josep Borrell, è tornato a protestare, chiedendo «pressioni sul governo israeliano» perché apra i valichi. Da parte sua Washington, che è giunto al terzo giorno di lanci di pacchi alimentari dal cielo (mossa ampiamente criticata perché insufficiente e politicamente fallimentare), è pronta ad annunciare una missione umanitaria via mare, un porto temporaneo per cibo, medicine e tende.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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