Jobs act, sarà battaglia anche in senato

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Aver impo­sto alla camera una pro­ce­dura straor­di­na­ria per appro­vare una legge delega con forti aspetti di inco­sti­tu­zio­na­lità aggrava la già grande distanza tra ciò che il par­la­mento ha discusso sul Jobs Act e il paese reale. Il paese reale uni­sce nelle piazze i gio­vani pre­cari che vogliono diritti e lavoro per tutti e i lavo­ra­tori che difen­dono i loro diritti ancora una volta per tutti. Il paese reale uni­sce nello scio­pero gene­rale del 12 dicem­bre i sin­da­cati che chie­dono ascolto per i lavo­ra­tori. Que­sta è una distanza che ora­mai si misura nell’aumento delle asten­sioni di ele­zione in elezione.

Lo abbiamo visto nel voto del Emi­lia Roma­gna, che solo il deli­rio di onni­po­tenza del pre­mier con­fonde come «effetto secon­da­rio». Il prov­ve­di­mento è stato votato da un’aula abban­do­nata da tutte le oppo­si­zioni, e la mag­gio­ranza si carica della respon­sa­bi­lità di ren­dere pos­si­bile il deman­sio­na­mento, il con­trollo a distanza senza il con­senso dei lavo­ra­tori, ste­ri­lizza una buona pro­po­sta di legge con­tro le dimis­sioni in bianco, già appro­vata a vasta mag­gio­ranza dalla camera dei depu­tati. Il mes­sag­gio è pre­ciso: il lavoro umano deve con­tare meno delle merci che pro­duce. Fino al art 18 reso defi­ni­ti­va­mente inutilizzabile.

Nes­suno licen­zia con argo­menti discri­mi­na­tori o disci­pli­nari se può, per motivi eco­no­mici, col­lo­care un lavo­ra­tore o una lavo­ra­trice in un ramo d’azienda in crisi, su un pro­dotto obso­leto o in una società in perdita.

I licen­zia­menti come l’acqua non vanno in salita. Il governo spera che di fronte a que­sta ridu­zione di cit­ta­di­nanza del lavoro arri­vino gli inve­sti­menti e il lavoro, quel lavoro e que­gli inve­sti­menti già man­cati dal governo Monti che aveva deca­pi­tato l’art18 pro­met­ten­doli. E il con­tratto a tutele cre­scenti, di cre­scente ha solo l’indennizzo per il licen­zia­mento. Il 20 mag­gio 1970 l’Avanti, quo­ti­diano socia­li­sta, salutò lo sta­tuto dei lavo­ra­tori tito­lando “La costi­tu­zione entra in fab­brica”. Oggi con quel voto la si fa uscire. Pro­se­guendo sulla strada aperta a Pomi­gliano dalla Fiat ame­ri­cana di Marchionne.

L’estensione degli ammor­tiz­za­tori è un’ipotesi senza risorse visto che ciò che si pre­para nella legge di sta­bi­lità (i 2,2 miliardi lordi) ad oggi noti non sono suf­fi­cienti nean­che a coprire le emer­genze della cassa in deroga del ultimo anno.

Tra ago­sto e otto­bre è aumen­tata la disoc­cu­pa­zione, sono esplose le ore di cassa inte­gra­zione, si stima una per­dita di 145.000 posti di lavoro a fronte dei 70.000 posti pre­cari creati dal decreto Poletti, frutto come ci ricorda il pro­fes­sor Ricolfi sulla Stampa, «di un inge­nuo trucco sta­ti­sti­stico». Infine si con­ferma la ridu­zione degli anni di mobi­lità della For­nero da 3 a 2 e scom­pare la cassa inte­gra­zione per le aziende “ces­sate”, per capirci la Fiat avrebbe potuto pren­dere la ex Ber­tone, dove oggi fa le Mase­rati, senza i lavoratori.

L’idea che la destrut­tu­ra­zione dello sta­tuto dei lavo­ra­tori si possa fer­mare nella scrit­tura dei decreti attua­tivi è un illu­sione. Magari utile al posi­zio­na­mento poli­tico dei sin­goli e forse di sem­pre più ristrette aree politiche.

L’aula della camera abban­do­nata dalle oppo­si­zioni, a par­tire da Sel, con i voti con­trari di Civati ed altri e l’uscita di una tren­tina di depu­tati intorno a Cuperlo e Fas­sina, dimo­stra che le lotte e i sin­da­cati pro­du­cono effetti. E il ritorno al senato del Jobs Act non ha nulla di scon­tato pur nell’ennesima fidu­cia che il governo li porrà. Le oppo­si­zioni devono pro­vare a fer­mare la delega sul lavoro. Le ragioni dei lavo­ra­tori che faranno grande lo scio­pero gene­rale del 12 dicem­bre devono poter con­tare anche in par­la­mento, con un gesto di forza e coe­renza anche delle mino­ranze del Pd .



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