Quel sasso tirato contro la vita la morte barbara di Rokhshana

Quel sasso tirato contro la vita la morte barbara di Rokhshana

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Notizie sull’età della pietra. Rokhshana è una ragazza di 19 anni, lapidata in un villaggio afgano nella provincia di Ghor.
I siti di tutto il mondo ne sono pieni, qualcuno sceglie un fermo immagine, qualcuno – migliaia – posta il video. Mentre alcuni uomini, senza fretta, senza emozione, scagliano le loro pietre, altri stanno accoccolati a guardare, altri riprendono col telefono. I siti avvertono che le immagini sono “graphic”, crude. Del resto in rete se ne trovano a volontà, di lapidazioni.
Ho guardato il video. Avevamo tanto letto e ascoltato la meravigliosa parabola dell’adultera senza capire davvero. Il fotogramma di Rokhshana e dei lapidatori è raccapricciante, ma è giusto sentire il suo pianto basso come un lamento, la voce tremula che prega e implora, e man mano che le sassate si infittiscono e si fanno più rapide la voce si alza e diventa un guaito e poi un grido alto, non più una preghiera a Dio e nemmeno un’implorazione agli assassini – e poi si interrompe.
Anche se lei ha chiesto pietà, è impossibile che abbia chiesto aiuto. Non c’è nessuno cui chiedere aiuto, da quella buca.
Da noi che, grazie ai carnefici vanesi, guardiamo e ascoltiamo, non viene aiuto. La provincia ha una governatrice, che si barcamena, disgraziata anche lei, fra la legge che vieta la lapidazione e la shari’a che, secondo lei, la prescrive.
Le autorità accusano i Taliban, qualcuno obietta che i capi tribali fanno lo stesso.
Rokhshana era scappata con il Mohammed che amava, 23 anni. Con lui sono stati clementi, si sono accontentati di frustarlo. L’adultera è per eccellenza femmina.
Mi sono ricordato del carcere femminile di Herat, costruito dagli italiani, dove le recluse erano donne accusate di adulterio anche solo immaginato, messe in salvo nelle celle dalle vendette omicide di uomini e famiglie.
A Kabul, a marzo, Farkhunda, una giovane accusata falsamente da un lurido mullah di aver bruciato pagine del Corano, era stata trucidata da una folla di giovani uomini che lottarono per calpestarla, saltare sul suo corpo, infierire coi bastoni, infine darle fuoco. C’è il video, meticoloso. Ci fu una ribellione mirabile di donne, vollero, contro ogni tradizione, caricarsi sulle spalle la bara della loro sorella.
Il potere se ne spaventò, recitò qualche punizione. A distanza di pochi mesi tribunali superiori riportarono le cose all’ordine maschile. Alla “differenza culturale”.
La questione afgana ha infatti questo di peculiare, rispetto all’intervento internazionale: che le donne lo chiedono, in nome dell’incolumità e dei diritti più elementari.
Ora c’è una gran vicenda fra Afghanistan e Stati Uniti. Nel 2011 due Berretti verdi, un ufficiale e un sottufficiale, trovarono il capo della polizia di un paese, nominato da loro, che aveva tenuto per giorni un bambino incatenato al letto per abusarne, e picchiato la madre. Gli diedero una lezione e denunciarono la cosa. La cosa rivelò che quella tradizione, si chiama bacha bazi, “giocare coi bambini”, è diffusa: capi della polizia o dell’esercito afgano, i “nostri”, si prendono dei bambini per farli danzare vestiti da femmine e abusarne. I due americani furono rispediti in America, e lo scandalo è scoppiato ora (grazie a un articolo del New York Times), quando uno si è congedato, e l’altro non accetta di esser congedato.
Vengono fuori circolari militari che insegnano ai marines che lo stupro di bambini e donne in Afghanistan è «una questione culturale» dalla quale devono astenersi. Sono molti in America a dire che “i veri americani” sono quelli che non hanno voltato la testa dall’altra parte. Finché il comandante delle forze Usa in Afghanistan ha dichiarato: «Voglio che sia assolutamente chiaro che ogni abuso sessuale o analogo maltrattamento, chiunque ne sia l’autore o la vittima, è del tutto inaccettabile e riprovevole».
Un po’ di americani e di italiani resteranno in Afghanistan. Avranno capito che la “questione culturale” è la solita questione maschile.


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