Raqqa, per l’Is è stato d’emergenza

Raqqa, per l’Is è stato d’emergenza

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L’Is è in ritirata, l’ultima prova è la sua dichiarazione di uno «stato di emergenza» a Raqqa, città che viene considerata la «capitale siriana» delle forze jihadiste. La fonte è il Pentagono, che sostiene di averne le prove dall’attività sui social media.

È lì che si moltiplicano i preparativi dell’Is per reggere a uno stato d’assedio o all’assalto finale su Raqqa. Lo ha detto il colonnello Steve Warren, portavoce della coalizione anti-Is a guida americana che agisce in quell’area. «Che cosa significhi esattamente non lo sappiamo — ha dichiarato Warren — ma stiamo osservando questa dichiarazione di stato d’emergenza. Si sentono minacciati, ed è comprensibil».
Il Pentagono descrive movimenti dei combattenti in città, per preparare difese laddove ci sono bersagli esposti ai raid aerei o a un attacco terrestre. Warren ha aggiunto un aggiornamento sui successi militari delle composite coalizioni sostenute dagli americani e dalla Nato: «Le Forze Democratiche Siriane, insieme alla Coalizione Araba Siriana, avanzano su Raqqa da Est e da Ovest. Il loro controllo sulle aree già conquistate sta diventando sempre più sicuro e da lì le Forze Democratiche Siriane sono in grado di lanciare nuovi attacchi ». Ai segnali di difficoltà dell’Is nella sua roccaforte siriana gli americani aggiungono il numero crescente di disertori. L’assalto a Raqqa potrebbe perfino consentire di colpire il leader massimo del Califfato, Abu Bakr Al-Baghdadi, che potrebbe trovarsi in quella città siriana.
Di segno diverso però è l’avanzata dello Stato Islamico su Deir Ezzor, città siriana parzialmente controllata dal regime Assad. Sul controllo di Deir Ezzor si svolge un battaglia cruciale, sia per la vicinanza di pozzi petroliferi, sia perché quell’area collega le zone controllate dall’Is in Siria e quelle in Iraq.
Gli stessi americani bilanciano le notizie positive con un messaggio allarmante: proprio perché si trova in difficoltà sul terreno, lo Stato Islamico si starebbe convertendo ancor più al terrorismo contro bersagli occidentali o in Medio Oriente. Se le operazioni militari sul terreno hanno consentito di ridurre di un quarto l’area controllata dall’Is tra Iraq e Siria, questo può avere come effetto collaterale un aumento di stragi altrove. Una conferma verrebbe dalle tre giornate consecutive di attentati che hanno insanguinato Bagdad la settimana scorsa, con un bilancio di oltre cento morti.
Tra i successi militari conseguiti contro lo Stato Islamico negli ultimi mesi, i più significativi sono la riconquista della storica città di Palmiria in Siria a marzo, e prima ancora le sconfitte dei jihadisti in diverse battaglie a Ramadi (Iraq) nel dicembre scorso. Continua a essere rinviato il piano di liberazione di Mosul, la seconda maggiore città irachena, che venne conquistata dall’Is nella sua prima impetuosa avanzata nel 2014. Mosul è considerata l’equivalente di Raqqa, quindi una sorta di capitale irachena del Grande Califfato. La linea della Casa Bianca è che queste operazioni militari devono essere lanciate solo quando hanno soverchianti probabilità di successo; e tra gli ingredienti per la vittoria l’Amministrazione Obama sottolinea il ruolo preponderante che devono avere combattenti sunniti della coalizione.
Una delle ragioni del successo iniziale dello Stato Islamico in Iraq, infatti, è la rabbia della maggioranza sunnita per le vessazioni subite dagli sciiti che hanno le leve del potere a Bagdad. Obama nel suo recente viaggio in Arabia saudita ha rilanciato le richieste agli Stati del Golfo perché aumentino il sostegno alla coalizione arabo sunnita anti-Is.
Sempre le fonti militari americane parlano di crescenti difficoltà di reclutamento da parte dell’Is. I «combattenti stranieri» che ancora l’anno scorso affluivano in Iraq e Siria al ritmo di 2mila al mese, adesso sarebbero scese a un decimo. Lo Stato islamico starebbe rafforzando la chiusura ermetica delle sue frontiere per frenare il flusso dei disertori.
Al tempo stesso, tra i combattenti stranieri che lasciano le zone di guerra, alcuni possono tornare nei paesi d’origine a organizzare attentati.


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