Un’estate italiana: cala la produzione, aumentano i precari

Un’estate italiana: cala la produzione, aumentano i precari

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Nuovo ribasso dell’industria italiana a giugno quando la produzione ha lasciato sul campo lo 0,4% su base congiunturale e l’1% tendenziale. È il dato peggiore dal gennaio 2015, quando la caduta è stata del 2,1%. Segno di un’economia in frenata che ha registrato un aumento dell’0,8% negli ultimi sei mesi. Non basta per essere ottimisti: quella di ieri è la seconda flessione consecutiva che preannuncia un peggioramento del Pil a fine anno. L’altra notizia data ieri dall’Istat è l’«espandersi» dell’occupazione. Dizione curiosa, tutta da scoprire. Dalla nota mensile, infatti, emerge con chiarezza la struttura del mercato del lavoro italiano dove, è ormai una tradizione, il lavoro a termine, precario, a tempo la fa da padrone. Nel secondo trimestre, guardando alle tipologie contrattuali, «si è osservato un aumento più marcato degli occupati dipendenti a termine (+2,6% rispetto al primo trimestre) e della componente indipendente (+1,1%) rispetto alla moderata crescita dei dipendenti permanenti (+0,2%). Rimettiamo allora in ordine i dati ufficiali con la propaganda di governo. Dopo l’Inps, ora anche l’Istat conferma: l’incremento dell’occupazione «stabilmente precaria» – cioè quella del contratto a tutele crescenti del Jobs Act senza articolo 18 e libertà di licenziare al termine degli sgravi contributivi pubblici alle imprese nel 2018 – è «moderato». Si conferma, invece, ben più sostanzioso l’aumento dell’occupazione precaria. È la normalità del mercato che il governo non ha potuto correggere a suon di sgravi e di un maquillage sui contratti precari che restano copiosi nel supermarket italiano.

L’Istat addebita il rallentamento della produzione al settore manifatturiero che ha registrato una sensibile diminuzione dei livelli di attività. Dopo una lunga rincorsa durata due anni, si è fermata l’industria dell’auto. A giugno un calo dell’1% rispetto all’anno precedente nei dati corretti per gli effetti di calendario. È il primo segno meno a partire da maggio 2014 (quando la flessione era stata del 3,7%). Nei primi sei mesi dell’anno la produzione del settore è comunque in crescita tendenziale dell’8,3%. A giugno si è salvato solo il comparto dei beni intermedi (+0,8%), mentre tutti i principali settori dell’industria sono diminuiti: l’energia (-5,5%), i beni di consumo (-2,1%), i beni strumentali (-0,3%). Le diminuzioni maggiori sono state registrate nell’attività estrattiva (-19,2%), nella produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (-7,0%).

I fattori sono molteplici. L’Istat sottolinea l’impatto che ha avuto il calo del commercio estero all’interno di una congiuntura che volge al brutto dopo il Brexit. L’Eurozona rallenta tutta, e anche la Germania soffre. In questo paese, e contro le attese, gli ordini alle fabbriche sono diminuiti a giugno dello 0,4% e del 3,1% sull’anno. Molti istituti hanno rivisto il Pil italiano al ribasso, sicuramente sotto l’1% nel 2016. Prospettiva confermata da Padoan e Renzi. Il rovescio, anche se annunciato, ha evidentemente una ragione nell’asfittica domanda interna: si produce meno perché si vende meno. E si vende meno perché i consumatori non comprano. Dietro i consumatori c’è il potere d’acquisto di salari, stipendi e redditi: al palo sia nel caso dei lavoratori che in quello dei pensionati. Il fronte è amplissimo e il governo sembra imbambolato, alla ricerca di una quadra difficile: da un lato, per 12 milioni di lavoratori pubblici e privati dovrebbe rinnovare i contratti bloccati da anni. Dall’altro lato ridurre la tassazione, come ripete Renzi da tempo. Il punto è che non ci sono risorse per tutto, al punto che la conferma degli sgravi fiscali sulle assunzioni potrebbe essere pagata da imprese e lavoratori, e non più dalla fiscalità generale. Risorse cospicue sono state investite sul bonus Irpef degli 80 euro per i dipendenti tra gli 8 e i 26 mila euro. Una misura che il governo avrebbe voluto sostitutiva del rinnovo dei contratti e che invece ha confermato una sostanziale inutilità per il rilancio del potere d’acquisto.

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