Libano, attacco all’Unifil feriti sei caschi blu italiani

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BEIRUT – Forse, uno dei blocchi di cemento che in più punti dell’arteria sostituiscono i guard rail, dietro al quale era stato nascosto l’ordigno, ha evitato la strage. Ma, a prescindere dalla quantità  di sangue versato, resta il messaggio di sfida sparato dagli attentatori in faccia alla comunità  internazionale.
Era appena passate le cinque del pomeriggio, quando al comando delle truppe Onu, è scattato l’allarme. Le prime informazioni, destinate per fortuna ad essere poco dopo corrette parlavano di un attentato contro un convoglio dell’Unifil nei pressi di Sidone, in cui 2 soldati italiani erano stati uccisi e 4 feriti. A far pensare che l’esplosione avesse provocato gravi perdite, oltre ad uno sbrigativo comunicato dell’esercito libanese, avevano contribuito le immagini che un fotografo della agenzia Reuters era riuscito a prendere con estrema tempestività : la jeep investita dall’esplosione appariva completamente scarnificata, un intreccio di nude intelaiature fumanti, ma nel cuore di quel rottame, si distingueva nettamente l’autista inchiodato al suo posto coperto di sangue e, dietro, un altro ferito che aveva avuto la forza di spingere verso l’esterno un braccio. Tuttavia, a sera, il vice-comandante dell’Unifil, il generale Santi Bonfanti, al ritorno da un sopralluogo e da una visita all’ospedale di Sidone, ha ricevuto assicurazione che nessuno dei 6 feriti è in pericolo di vita.
E’ del tutto evidente che qualcuno tenesse d’occhio da tempo i movimenti dell’Unifil in quella zona che è un po’ una terra di nessuno nella mappa delle sovranità  territoriali del vari gruppi armati. Nelle parole di solidarietà  e di apprezzamento dei dirigenti dell’Hezbollah verso la partecipazione italiana alla forza internazionale («l’Italia ha contribuito alla pace e alla stabilità  e ha protetto i cittadini che vivono al Sud», parole del responsabile Esteri del Partito di Dio, Alì Dogmush) colpisce la precisazione che la zona dell’attentato non ricade nella competenza della milizia sciita filo iraniana. E, il tipo di attentato, il cosiddetto modus operandi, per gli esperti non appartiene a Hezbollah.
Di certo il luogo dove è stata fata esplodere la bomba è ideale per confondere le acque. L’attentato è avvenuto infatti, sull’arteria più trafficata del Libano, a 35 chilometri da Beirut, all’altezza del paesino di Rmeileh, a circa un chilometro da Sidone e anche meno dal campo profughi di Ain el Hilwe, famoso per l’ospitalità  garantita anche a formazioni estremiste palestinesi molto vicine all’islam radicale e molto attratte dal mito di Al Qaeda.
Ma tutto il contesto in cui è avvenuto l’attacco, se pensiamo alla matrice possibile, sembra suggerire non una ma diverse possibilità . E’ la palude libanese nella sua forma più classica, senza una vera guerra guerreggiata per le strade, ma con la vischiosità , la doppiezza, l’imprevedibilità  tipiche di un Paese che da quasi 40 anni è terreno di scontro indiretto tra potenze più o meno vicine ma ugualmente interessate a dettarne il destino. Con un’aggravante, però, data dal fatto che da 5 mesi il Libano è senza governo. Da 5 mesi una classe politica irresponsabile e, in varia misura, asservita, gioca il gioco pericolosissimo del vuoto di potere organizzato, del “si sta meglio senza governo”, ma in realtà , aspettando ordini che non arrivano dal potente vicino di Damasco.


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