Reda, sei mesi di torture nelle carceri del raìs “In prima linea per la libertà ”

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TRIPOLI – Il carcere di Abu Salim è stato conquistato dagli uomini del Consiglio di Transizione ma, come tutto a Tripoli, è ancora sotto il tiro dei fedelissimi di Gheddafi. È una corsa contro il tempo sfidando i cecchini. Gran parte dei detenuti sono stati liberati, tra loro ci sarebbe anche Matthew VanDyke, un giornalista americano che era scomparso in Libia lo scorso marzo. Ma ora si cercano le “fosse”, le celle sotterranee. «C’è solo un buco per respirare, so che ci sono decine di persone detenute in quelle tombe segrete. Se non si trovano in tempo moriranno» dice Reda Omar Ali Jernaz, 34 anni, che da Abu Salim è evaso martedì scorso. Ha il polso fratturato in più punti Reda e sul resto del corpo i segni delle torture che si sono state inflitte durante circa sei mesi di detenzione ma ieri è tornato in prima linea a combattere. «È la battaglia finale contro il tiranno, non potevo non esserci. Prima però dobbiamo trovare i nostri compagni sepolti vivi» dice mostrando l’ingessatura artigianale che si è fatto fare per impugnare il fucile.
Reda è berbero ma abita a Tripoli dove lavorava all’ufficio di collocamento, le guardie di Gheddafi lo hanno arrestato il 17 marzo mentre con quattro amici cercava di raggiungere Natul, un villaggio berbero a 30 chilometri dalla frontiera tunisina e di unirsi ai primi nuclei di insorti. «Ci hanno legato e bendato gli occhi – ricorda – poco dopo ero ad Abu Salim ed ho capito di essere finito all’inferno». Ed è lì che Reda viene a sapere delle “fosse”, le celle scavate nella terra e riservate a quelli che il regime considera i nemici più pericolosi. «Io sono stato più fortunato» dice con un sorriso. Finisce in una cella di cinque metri con altre trentacinque persone. Il vitto è un pugno di riso crudo, un uovo da dividere con nove compagni di sventura e da bere c’è solo acqua che sa di terra. Non si può lavare, per sei mesi veste gli abiti che aveva addosso il giorno dell’arresto anche se sono a brandelli. «Quello però era il meno – ricorda con un sorriso – ci picchiavano tutti i giorni. Arrivavano uomini mascherati e ti strappavano dalla cella. Un mio compagno è morto dopo uno spintone tanto violento da fargli battere la testa a terra. Gli gridavano di alzarsi e continuavano a prenderlo a calci pensando che facesse finta di aver perso i sensi».
Nelle salette dove si svolgono gli interrogatori i torturatori hanno ideato strumenti fantasiosi per tormentare i detenuti. «Si cominciava con le bastonate poi con le scosse elettrice. Perché fossero più efficaci ci bagnavano con secchiate d’acqua. Poi c’era una strano strumento, una specie di cassetta sui cui si era incatenati con un ferro tra le gambe e poi pestati per ore. Le domande erano sempre due: “Quanti ne ha uccisi dei nostri? Chi ti paga?”. Lo scopo delle loro torture era chiaro: volevano una confessione che eravamo al soldo di Al Qaeda o di chissà  chi da farci ripetere in televisione. Gridavo che ero berbero, che non avevo fatto nulla, che stava solo andando a trovare la mia tribù e soprattutto che non parlavo bene l’arabo e quindi non potevo andare in tv…», spiega Reda che però non è riuscito a convincere i suoi carcerieri ed è stato torturato quasi tutti i giorni. «Ero ferito come gran parte dei miei compagni e dato le condizioni delle celle la cancrena dilagava. Ne respiravi l’odore opprimente chiedendoti quando sarebbe toccato a te marcire lentamente…» rammenta Rea.
D’altronde finire all’ospedale era ancora peggio. «Lì c’erano i soldati di Gheddafi feriti quando vedevano arrivare uno in manette e capivano che era un ribelle lo strangolavano…». Nell’inferno di Abu Salim Reda vede cose inimmaginabili. «Bimbi di tredici anni picchiati e torturati con il fratello di quindici, figli martirizzati davanti ai padri e viceversa. E poi ho saputo questa storia delle fosse. Gran parte dei secondini è scappata, nessuno sa dove sono quelle celle sotterranee. Dobbiamo trovarle al più presto, non importa se occorre sfidare i cecchini. Se arriviamo tardi troveremo solo delle tombe», sottolinea con una smorfia di disgusto.
Il 21 agosto con altri detenuti, approfitta di un allentamento della sorveglianza e tenta la prima evasione ma non riesce a raggiungere il muro di cinta e deve tornare in cella. Sarò libero soltanto il giorno dopo con la complicità  di un guardiano nel frattempo passato con gli insorti ma dopo aver superato ancora un pericoloso ostacolo. Racconta: «Ci avevano fatto sapere da fuori che avrebbero sfondato il muro con un caterpillar poi però il sorvegliante diventato dei nostri ha aperto le celle. Erano le 22. Siamo usciti in massa ma molti secondini erano fedelissimi di Gheddafi e hanno sparato a raffica. I più lenti sono morti, io sono vivo perché corro veloce anche con un polso rotto. E dopo quello che ho visto non posso far altro che cercare le fosse e combattere. Per me e per i miei compagni morti ad Abu Salim».


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