Drone Usa e Mirage colpiscono il convoglio in fuga da Sirte

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TRIPOLI — Muammar Gheddafi è catturato vivo. Ferito, sanguinante, ma vivo. La sua esecuzione giunge qualche minuto dopo. Non si sa quanto voluta, pianificata, oppure l’azione anarchica di un guerrigliero. Muore ieri mattina, sembra attorno alle nove, per un colpo sparato al capo. Anche se il governo dei ribelli parla di un proiettile partito durante uno scontro con i suoi sostenitori.
Alcune immagini riprese con i cellulari dai guerriglieri della rivoluzione nei dintorni di Sirte lo vedono gridare confusamente, i capelli più scarmigliati del solito. Vicino alla sua testa un guerrigliero brandisce una pistola, lo colpisce più volte con il calcio alle tempie. «Ma io che ti ho fatto?», esclama il Raìs. Secondo le prime ricostruzioni, inizialmente è stato ferito alle gambe, forse conseguenza di un raid della Nato dal cielo contro il suo convoglio di vetture in fuga. Sembra che gridi: «Non sparate, non sparate!».
Viene appoggiato al pianale di un pick up. I ribelli attorno a lui cantano, sparano in aria, si abbracciano. Poi ci dicono che è morto. Lo trascinano per le gambe, gli tolgono la giacca mimetica, lo coprono con un telo bianco. Sono fotografie confuse, distorte, lui appare con i capelli scuri, contrastano con il rosa intenso del collo e del petto. Il suo cadavere è quindi filmato adagiato in una brandina all’interno di un’ambulanza a Misurata. Magia di quella stessa rivoluzione informatica e della comunicazione che è all’origine della Primavera araba, le nuove televisioni locali della Libia libera rilanciano su tutti i teleschermi del Paese i suoi ultimi secondi di vita e quindi il cadavere spintonato. I libici si passano queste immagini crude, brutali, sui telefonini. A Misurata, Tripoli, Bengasi, sui villaggi berberi delle montagne di Nafusa, in tutti i centri della rivoluzione, scatenano manifestazioni di gioia sfrenata, lunghe raffiche in aria, il concerto prolungato dei clacson delle auto. È la felicità  della fine di un incubo, una gigantesca, corale festa collettiva.
Sono le cronache più drammatiche della giornata di ieri. Non è retorico affermare che in poche ore la Libia è repentinamente passata dalla fase della rivoluzione a quella post-Gheddafi. È finalmente morto il dittatore padre-padrone per 42 anni. Ora il Paese guarda alla stabilizzazione, può passare alla preparazione delle elezioni previste tra 18 mesi. Si sono concluse le incertezze più gravi che hanno caratterizzato tutto il periodo della rivoluzione avviato dalle sommosse a Bengasi del 17 febbraio e che erano rimaste irrisolte persino dopo la liberazione di Tripoli il 23 agosto. Sino all’altro ieri c’era ancora il timore che Gheddafi potesse organizzare la resistenza armata in clandestinità . C’era chi temeva uno scenario da Iraq 2003, quando la liberazione di Bagdad da parte delle truppe americane fu seguita da una breve parentesi di soffusa, palpabile tensione e quindi dalla stagione del terrorismo, dei massacri terribili, indiscriminati e della guerra civile. Ora non più.
Possiamo quindi cercare di ricostruire le ultime ore del Colonnello ieri mattina. Dopo i pesanti bombardamenti di martedì e mercoledì, era ormai evidente che le poche centinaia di lealisti asserragliati nel cosiddetto «quartiere numero due», una zona residenziale presso il lungomare di Sirte devastata dalle bombe, lunga meno di 2 chilometri e larga 500 metri, non avrebbero più potuto resistere. Da due mesi non hanno acqua, corrente, dispongono di poco cibo, quasi nessuna medicina, sono esausti. Verso le sette tentano dunque la sortita a bordo di un centinaio di vetture. Dai balconi alcuni cecchini scelti coprono la fuga. Le vedette delle colonne rivoluzionarie segnalano il movimento all’Alleanza Atlantica. Dopo pochi minuti intervengono i jet francesi e un drone americano, che distruggono almeno due veicoli. Un tema delicato: quale è stato il ruolo della Nato? «Sappiamo per certo che Gheddafi non è stato ucciso dalla Nato. Contro di lui hanno operato i nostri eroi libici», ci ha detto ieri tagliando corto bruscamente lo stesso premier ad interim, Mahmoud Jibril. La colonna lealista comunque si ferma, giungono veloci sul posto i mezzi delle truppe rivoluzionarie. Lo scambio a fuoco è intenso, caotico, i filo-Gheddafi si disperdono. Sembra che il dittatore cerchi di rifugiarsi in un tunnel per l’irrigazione dei campi. «Come Saddam, si è nascosto in un buco. Questa è la fine dei dittatori», commentano in tanti ripensando alla scena del presidente iracheno catturato a Tikrit. La differenza fondamentale però è che in questo caso sul terreno non ci sono soldati americani o della Nato, bensì operano esclusivamente i volontari della rivoluzione libica. Uno di loro avrebbe sparato alla testa del dittatore con un’arma calibro nove millimetri.
Poco dopo arrivano anche le immagini del cadavere del figlio Mutassim: sembra si trovasse in un’altra vettura dello stesso convoglio che stava cercando di rientrare tra i vicoli devastati di Sirte. Nel pomeriggio ancora Jibril annuncia ai giornalisti a Tripoli che anche l’altro figlio Saif Al Islam sarebbe stato preso. Di lui ci sono poche foto confuse. «Non è chiaro se sia illeso, ferito, oppure morto», dice Jibril. Pare sia stato invece catturato tra gli altri Mussa Ibrahim, il noto portavoce della dittatura.
Che fare ora del cadavere di Gheddafi e dei suoi fedelissimi? Come evitare che le loro tombe divengano luoghi simbolici di aggregazione e sprone per i nemici della rivoluzione? «Francamente non ci abbiamo ancora pensato. Per me l’importante è che Gheddafi non possa più nuocere alla Libia e alle nostre libertà . A che fare del suo cadavere penseremo poi», replica ancora Jibril. Ieri sera l’annuncio della sepoltura in una località  segreta.
E dire che sino all’altro ieri sembrava che la piazzaforte di Sirte potesse resistere ancora per qualche giorno. Voci della possibile presenza del dittatore tra i fedelissimi arroccati nella sua città  natale erano girate appena dopo la caduta di Tripoli. Ma nell’ultimo mese era diffusa la tesi che Gheddafi fosse nascosto nelle zone desertiche del Sud, al confine con Niger e Ciad. Era stato ventilato che stesse addirittura pianificando la nascita di un micro-Stato di guerriglieri-beduini Tuareg, con i quali poteva terrorizzare il Paese e preparare le sue vendette. Con la moglie, la figlia Aisha, parte dei suoi generali e fedelissimi scappati in Algeria e Niger, si era detto potesse ragionevolmente pensare al riscatto armato, alla vendetta contro la sua gente. «Gheddafi è un serpente velenosissimo. Sino a quando sarà  in vita potrà  danneggiarci», era uno dei luoghi più comuni.
Questa narrativa sembrava confermata dalle difficoltà  incontrate dalle forze della rivoluzione nel battere le due ultime roccaforti lealiste lungo la costa: Sirte e Bani Walid. L’11 ottobre Sirte pareva dover cadere da un momento all’altro. Vi si era recato lo stesso presidente del Consiglio nazionale transitorio, Mustafa Abdel Jalil, per dichiarare «vittoria». Il giorno dopo veniva dato per catturato Mutassim, il figlio del Colonnello che da mesi guidava i combattimenti in loco. Ma poi i lealisti avevano rilanciato i combattimenti e di Mutassim nessuna traccia. Il 13 ottobre abbiamo assistito in diretta dalle strade devastate di Sirte all’ennesima «ritirata strategica» dei ribelli sotto una tempesta di proiettili sparati dai «gheddafiani». «Strano che siano tanto determinati. Dopo tutto sono accerchiati, isolati. Cosa li spinge a morire combattendo?», si erano addirittura chiesti i portavoce della Nato. Ora abbiamo la risposta: tra loro stava lo stesso Raìs a spronarli.
Domenica scorsa le colonne della rivoluzione avevano infine preso il centro di Bani Walid. Pensavano di trovarvi Saif Al Islam, il figlio più politico del Colonnello. E invece nulla. «Soltanto adesso ci siamo resi conto che tutte le figure più importanti della dittatura si erano radunate attorno a Gheddafi per offrire un’ultima, disperata resistenza a Sirte», ci ha detto ieri pomeriggio Hisham Buhagiar, il capo della brigata che catturò la piazza di Tripoli e da allora è stato incaricato di cercare di prendere Gheddafi.
Dal suo racconto sembra che il Colonnello sino a poco fa abbia potuto viaggiare nel Paese con libertà  inaspettata. «Dopo aver perso la capitale, Gheddafi è stato a Sirte, quindi a Bani Walid. Un mese fa l’avevamo rintracciato nell’oasi di Sabha. Ma l’abbiamo mancato per 24 ore. Sappiamo che più volte ha sconfinato nel Sud dell’Algeria, l’ultima tre settimane fa, quando l’abbiamo perduto. Evitava di parlare al telefono, era molto attento, i suoi collaboratori comunicavano in codice. Il suo nome non era mai pronunciato. Alcuni informatori lo segnalavano a Bani Walid una settimana fa. Da qui non gli è stato troppo complicato fuggire a Sirte. Capiva però che le riserve stavano finendo. Mancavano munizioni, non c’era più troppo margine di manovra. Ieri erano con lui 300 o 400 dei suoi migliori soldati. Erano ancora in possesso di armi estremamente sofisticate, molto migliori di quelle dei nostri», afferma.
Le prossime giornate saranno intense. Tra le prime mosse del governo di transizione ci sarà  quella di chiedere all’Algeria l’estradizione dei familiari di Gheddafi. Soprattutto ora si deve annunciare ufficialmente la liberazione del Paese, l’avvio del governo transitorio e la nascita della costituente volta a preparare le elezioni. La Libia è in festa. I problemi non mancano, a partire dalle profonde divisioni che lacerano il fronte rivoluzionario. Ma ora finalmente la strada per il futuro è aperta.


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