Il desiderio? Tutto in una notte

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Non è il caso di Abbas Kiarostami in concorso con Like someone in love (concorso) prodotto dall’ex cineasta sessantottino Marin Karmitz che ha dovuto vendere all’asta di Sotheby una «spugna» blu di Yves Klein per finanziare il film. Perché un film ambientato in Giappone? «Perché così smetteranno di dire che faccio film occidentali» risponde il regista iraniano, presente a Cannes nel 2010 con l’italo-francese Copia conforme . Ed è un incrocio di lingue, pensieri, biografie, sessi… una geopolitica emozionale che attraversa l’ultima opera dell’autore di Close-up , amante amato del Giappone ( Five dedicated a Ozu , 2004), migrante di corpo in corpo alla ricerca dell’«originale», ma anche qui il il film è disseminato di «copie». Akiko (Rin Takanashi) assomiglia a tutte, alla «ragazza con il pappagallino», dipinto giapponese del 1900, e alla squillo che strizza l’occhio su un adesivo esposto nei taxi di Tokyo, è una e nessuna, e Kiarostami veicola il suo sguardo enigmatico attraverso quello di lei, la segue dal night-club alla casa del cliente di turno. Akiko è indecisa su quale strada da prendere. Tornare a casa per studiare, andare dal fidanzato violento e geloso, recarsi a un appuntamento con la nonna o ubbidire al suo agente del sesso. Il film prenderà  ognuno di questi percorsi in una vagare sonnambulo della ventenne fior di loto, ma nessuno avrà  un approdo. La sequenza del taxi che gira nel buio intorno alla piazza della stazione dove la nonnina venuta dal paese aspetta invano la nipote è il tempo circolare della ricerca, di un desiderio inespresso che trova una corrispondenza solo in un ottantenne professore con la casa zeppa di libri, il «cliente». Tutto in una notte, Akiko e Takashi (Tadashi Okuno), si incontrano in quella zona franca dello schermo dove non c’è inizio né fine, un sasso manda in frantumi il vetro della finestra e invade lo spazio dell’intimità  come il sampietrino di Bernardo Bertolucci in Dreamers . Sconcerto in sala. Final-cut. Altro film trascendente, Dracula (fuori concorso) di Dario Argento, rilettura in terza dimensione di un classico. Bram Stoker riga per riga ma riscritto in un gotico stilizzato, graffi di colori e forme nella magnifica fotografia di Luciano Tovoli (Antonioni, Schroeder, Argento, Suspiria ). Come rimettere in forma il cinema, succhiando sangue dai maestri, filone Hammer che realizzò il Dracula di Christopher Lee. Il preferito di Argento che pure si discosta e orchestra un opera del vampiro «moderna» nelle segnaletiche del genere, e dove lo stereotipo è dichiarato e decostruito se non altro per lo straniamento di Asia Argento, stretta nelle sontuose vesti di fine ottocento scenario del sanguinario «Vlad l’impalatore». Variazioni nel personaggio del Conte (Thomas Kretschmann) e per il resto un minuzioso armamentario di aglio, paletti, pallottole (doppiamente) d’argento, vetri senza riflesso, gole squarciate, lupi…. Cast perfetto (Rutger Hauer, Marta Gastini, Unax Ugalde) su musica elettrizzante dell’ex Goblin Claudio Simonetti. Nessun esercizio accademico, Dracula è pura libertà  di fraseggio, azzardo e avanguardia, un po’ come lo Psycho di Gus Van Sant dove ogni piccola digressione sul testo originario crea vertigini e shock. È il caso dell’enorme mantide religiosa che proietta la sua ombra sulle scale, travestimento del Vampiro in stile Argento, adoratore di insetti ( Phenomena ) e di b-movie, ed è tutto un pullulare di mosche e scarafaggi pensanti, ma che non tolgono il primato a Matteo Garrone. La cosa più sorprendente di Reality è quel grillo che si gira verso il protagonista e lo guarda con intenzione, più che una citazione di Pinocchio , la bestiola dagli occhietti maligni è un pezzo pregiato di cinema horror (solo Moretti disapproverà ). A proposito di format, l’ex Dogma della scuderia Lars von Trier presenta il suo, La caccia (concorso) di Thomas Vinterberg, la «promessa» danese di Festen (1998) che molti anni e film dopo torna sul luogo del delitto, l’abuso sessuale in famiglia. Il film segue l’andamento di quelle serie «educative» centrate sulle disfunzioni sociali, «disturbanti» come un popcorn andato di traverso. In un villaggio tra boschi e colline, un giovane maestro di asilo, Lucas (Mads Mikkelsen) è ingiustamente accusato di molestie sessuali da un angioletto vendicatore, una bambina che si sente respinta. La comunità  machista, tutti grandi, grossi e cacciatori (Bambi non perdona) si schiera contro l’amico, le donne aizzano al linciaggio, Lucas è braccato. Gli ammazzano il cane, lo scacciano dal supermercato e dalla chiesa, senza prove. Vinterberg denuncia il pericolo del «sentire comune», il contagio dei «buoni», capaci dei peggiori crimini. E fa bene. Ma non c’è una scintilla in questo telefilm inesorabilmente didascalico che inanella frasi e immagini stra-fatte.


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